Dopo il sostanziale fallimento della riforma del Titolo V della Costituzione, che, nei fatti, ha incentivato la spesa improduttiva a livello regionale, lasciando in eredità allo Stato buchi di bilancio sempre più grossi da tappare, è ancora possibile ripensare un vero federalismo italiano? E, soprattutto, gli italiani lo vogliono?

Parigi mattoni

Moral hazard. Letteralmente, azzardo morale o, in una traduzione italiana più rispondente al suo corretto significato originario, comportamento scorretto. Un’espressione letta e ascoltata innumerevoli volte, negli ultimi anni, dalla crisi dei subprime americana, ai salvataggi delle banche su entrambe le sponde dell’Atlantico, alle tensioni sui debiti sovrani dei paesi europei.

Esso rimanda a un meccanismo all’opera nelle più svariate circostanze dell’esperienza umana, allorquando la presenza, implicita o esplicita, di una promessa di salvataggio di un soggetto o di un’entità giuridica in caso di difficoltà induce questi a compiere scelte più temerarie e rischiose di quanto farebbero in assenza di una rete di protezione. Fino al paradosso per cui dotazioni create per accrescere la sicurezza possono finire per ottenere l’effetto opposto: così, installare freni migliori su di un’auto può indurre a guidare in modo spericolato; l’assicurazione pubblica sui crediti spingere gli intermediari a un minore controllo sul merito di credito dei debitori; la garanzia sui depositi portare i risparmiatori a disinteressarsi della solidità della propria banca.

Non diversamente, se gli enti locali, ai vari livelli, godono di autonomia di spesa, ma vengono, poi, regolarmente protetti dalle conseguenze di decisioni allocative scellerate attraverso sempre nuovi trasferimenti da parte del governo centrale, allora non soltanto ogni barlume di responsabilità - nel senso etimologico di “essere chiamati a rispondere”, quella che dovrebbe essere la quintessenza della forma di governo democratica - si sfalda, ma vengono incentivate derive clientelari o puramente di natura elettorale nella distribuzione delle risorse, a danno dell’efficacia e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Questo è un po’ il cuore del problema economico federalista.

Quando nel 1975 la città di New York si trovò sull’orlo del default e fece richiesta di salvataggio alla Casa Bianca, la risposta del Presidente Gerald Ford venne catturata icasticamente dal titolo di prima pagina del New York Times, “Ford to City: Drop Dead”. Allo stesso modo e più di recente, Detroit, pur se al centro di una crisi fiscale derivante dal declino dei settori che tradizionalmente ne avevano retto le sorti, non determinata in prima istanza da una “cattiva” politica, ha dovuto risollevarsi in gran parte da sola. Quando nel 2008 il comune di Catania si trovò di fatto sul baratro finanziario, nelle sue casse giunsero 140 milioni di euro, e per giunta senza alcuna condizionalità di sorta.

Quali sono, allora, i benefici di un decentramento ben congegnato, posto che di un vero federalismo della natura sopra descritta in Italia non è esistita fino ad ora nemmeno l’ombra? In via preliminare, occorrerebbe l’individuazione, potremmo dire, di una territorialità adatta, della suddivisione dei compiti e delle responsabilità, delle procedure di gestione dei possibili conflitti di interessi, dei sistemi di imposizione e prelievo, tutto ciò nell’ambito di un nuovo quadro costituzionale di riferimento. Molta della letteratura che si è interrogata sulle migliori modalità di governance tende a suggerire la bontà di avvicinare il più possibile le decisioni al livello che esse impattano direttamente, in particolare perché:

- Per i cittadini è più facile valutare l’operato dei politici locali rispetto a quelli nazionali, riducendo in misura significativa gli elementi di asimmetria informativa;

- Maggiore autonomia di spesa e prelievo, maggiore chiarezza e accountability, rendono più difficile scaricare in seguito sullo Stato centrale i risultati di una amministrazione fallimentare, soprattutto in presenza di rigide clausole anti-bailout;

- La politica locale è così naturalmente incentivata ad esercitare una oculatezza altrimenti assai improbabile nella gestione delle risorse.

Tra i molti possibili, un esempio permette forse di comprendere meglio il cambio di paradigma cui assisteremmo se adottassimo un simile framework.

Da anni, si susseguono in modo un po’ stucchevole i famosi piani nazionali per gli aeroporti, ove una autorità centrale, tipicamente il Ministero dello Sviluppo Economico, individua gli aeroporti ritenuti assolutamente strategici e internazionali, quelli di rilievo soltanto nazionale, quelli regionali, nonché quelli da ridimensionare o chiudere, con regolari lamentazioni da parte dei territori che vedrebbero scomparire i propri scali.

Degli aeroporti oggi minori, alcuni sono in perdita perché effettivamente malgestiti o senza reale prospettiva di creare un network di arrivi e partenze minimamente adeguato a giustificarne l’esistenza, altri, invece, perché hanno deciso di incentivare, anche attraverso aggressive iniziative di co-marketing, l’arrivo di alcune compagnie aeree come Ryanair per portare viaggiatori e turisti sul proprio territorio. In quest’ultimo caso, la perdita contabile potrebbe ben essere semplicemente una sorta di loss leader - pensiamo ad Alghero - a fronte dell’indotto derivante dalla comparsa delle località in questione sulla mappa turistica europea. In altre parole, si dà il caso che una gestione nominalmente in perdita possa avere senso economico per le ricadute positive che l’accresciuto traffico ha sulle attività commerciali ed economiche dell’area coinvolta.

Come che sia, il punto è che la decisione sull’opportunità o meno di mantenere un aeroporto e a quali condizioni dovrebbe essere prerogativa del governo locale - chiaramente, si può discutere del livello di governo più adeguato, questione non così semplice, che però esula in parte dallo scopo di questa riflessione - il quale, essendo più vicino a cittadini e imprese e avendo a disposizione una quantità limitata di risorse, dovrà decidere se ci sono alternative migliori o meno cui destinarle, e poi assumersene l’onere, nel caso la scelta si riveli sbagliata o fatta soltanto per mantenere in essere il personale di terra o per accontentare qualche interesse particolaristico.

D’altra parte, quale piano nazionale sarebbe mai stato capace di anticipare il successo di Orio al Serio? È anzi verosimile che abbia corso il rischio di essere frenato nel suo sviluppo, magari persino con la motivazione - ascoltata a più riprese nella eterna querelle Linate/Malpensa - di non fare concorrenza agli altri aeroporti lombardi che godevano di maggiore peso politico regionale e nazionale. Possibilità di sperimentare e responsabilità ex post sono qui i concetti chiave, di contro a dannose omogeneizzazioni e volontà accentratrici - concetti che, per inciso, tornerebbero assai utili anche nel dibattito sul rapporto tra Unione Europea e Stati membri, in particolare in tema di tassazione.

Scelte sbagliate, si obietterà, potrebbero portare al declino relativo di certe città, province o regioni, quando non a crisi conclamate vere e proprie. Per certi versi, dato lo status quo, la stessa introduzione del federalismo non potrebbe non accompagnarsi all’attivazione di adeguati fondi perequativi, senza i quali le regioni oggi più povere si troverebbero a subire disagi cospicui e immediati. A regime, lo Stato sarebbe garante per tutti almeno di standard minimi di istruzione, assistenza sanitaria e rispetto della legalità, le varie entità sottostanti opterebbero in modo autonomo per l’aggregato di beni pubblici più rispondente alle preferenze dei propri cittadini.

Non è possibile, tuttavia, nascondersi le criticità che la transizione comunque implicherebbe, andando incontro alle resistenze che da tempo caratterizzano ogni seria riforma che provi a riportare l’Italia su di un sentiero di crescita ed efficienza: almeno nel breve termine, i trasferimenti in essere rendono assai poco attraente per le aree più povere votare a favore di un sistema davvero federale - le differenze di residui fiscali tra regioni sono come noto molto ingenti - e per nulla scontata la possibilità di deciderne democraticamente l’adozione, potere della legacy di un pesante passato e della necessità di intercettare almeno parte del consenso delle larghe coorti di individui che su di esso seguitano a prosperare.

Per non restare nel recinto del mero esercizio intellettuale è necessario, in altri termini, chiedersi ancora una volta: quanto è grande e pesante il fardello dell’eredità degli ultimi trenta, quarant’anni? Come spesso accade, il problema non è tanto la consapevolezza di ciò che non va né necessariamente l’assenza di volontà riformatrice, quanto la difficoltà nel coagularvi attorno il necessario consenso; il problema è il modo in cui si sono strutturati e sedimentati gli interessi nel tempo, tanto da dipendere sempre meno dalla qualità delle istituzioni o della classe politica. Anche nel più solido dei paesi, “riprendersi” ciò che è stato distribuito senza pensare alle conseguenze future è compito improbo, aggravato dal fatto che decenni di consuetudine hanno sostanzialmente convinto i cittadini-elettori che ricevere certi benefici/privilegi sia una sorta di diritto acquisito e/o fondamentale.

Un duro dato di realtà con cui ogni seria riforma deve in ultima analisi fare i conti. Il federalismo economico, per quanto sensato - anzi, proprio perché collettivamente sensato e razionale - non farebbe eccezione.