In un’Italia che ha un bisogno vitale di liberalizzazioni e concorrenza, qualcuno ha avuto la brillante idea di proporre nuova burocrazia, con l’istituzione dell’ennesimo albo professionale, quello dei pizzaioli professionisti, che in teoria dovrebbe servire a tutelare il Made in Italy, ma in realtà, come al solito, tutela solo qualche ostinata rendita di posizione.

Morganti pizza

Non sono tempi facili per la concorrenza in Italia. Mentre sono ancora in discussione le ultime modifiche al ddl concorrenza, la commissione Industria, commercio e turismo del Senato ha ricevuto un disegno di legge relativo all’istituzione di un albo dei “pizzaioli professionisti”.

Nelle intenzioni dei proponenti Bartolomeo Amidei e Paola Pelino, entrambi di Forza Italia, l’iniziativa ha lo scopo di “sanare il vuoto legislativo creatosi nel corso degli anni, prevedendo da un lato il riconoscimento della qualifica di pizzaiolo e dall’altro istituendo un apposito albo nazionale dei pizzaioli professionisti”. L’obiettivo è dunque regolamentare la professione vincolandone l’esercizio “qualificato” al conseguimento di un diploma, che sarà rilasciato da associazioni nazionali appositamente riconosciute dal Ministero dello sviluppo economico.

Potranno richiedere il certificato coloro che hanno svolto la professione per almeno diciotto mesi; sarà inoltre necessario che i candidati svolgano presso una delle associazioni riconosciute un corso di centoventi ore. Ciliegina sulla torta, gli iscritti all’albo dovranno corrispondere un contributo annuale obbligatorio al fine di “assicurare la copertura dei costi relativi alle funzioni svolte sia dal Consiglio nazionale dell’ordine sia dai collegi professionali territoriali, ai corsi di aggiornamento professionale e sanitario e alla tenuta dell’albo”. La stima della copertura finanziaria richiesta per dare vita all’albo è di 5 milioni di euro.

Non è dato sapere quali siano le chance di questa proposta di tradursi in legge. Quel che invece è certo è che, se il disegno fosse approvato, diventare pizzaioli in Italia sarà improvvisamente più difficile e costoso. E ciò, verosimilmente, finirà per avere conseguenze negative sugli stessi consumatori. Innalzando delle barriere – burocratiche ed economiche – all’esercizio di una professione, si finisce per restringere il numero delle persone che la esercitano, con un possibile innalzamento del prezzo del bene offerto. È inoltre evidente che le barriere all’ingresso penalizzino in prima istanza coloro per i quali è più difficile sostenere quel costo, in termini di tempo e di spesa. A essere sfavoriti da un provvedimento del genere sarebbero dunque stranieri e immigrati, considerando che oggi, secondo le stime di Coldiretti, sono italiani soltanto sei pizzaioli su dieci.

Le associazioni, si legge nel disegno di legge, non soltanto sostengono la candidatura UNESCO “dell’arte dei pizzaioli napoletani”, ma “collaborano con il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali per valorizzare il made in Italy e per rappresentare l’Italia in tutto il mondo”.

Come ha recentemente osservato l’Economist, d’altro canto, l’ossessione italiana per il made in Italy rischia di trasformarsi in un vero e proprio boomerang che blocca la crescita riducendo le opportunità produttive del paese. Un’ossessione che poggia peraltro su una narrativa sempre meno convincente. Non soltanto è straniera quasi la metà di coloro che esercitano la professione, ma sono spesso stranieri – ancora secondo Coldiretti – gli ingredienti con cui la pizza viene preparata, con un conseguente aumento dell’importazione di pomodoro cinese, olio tunisino, grano canadese e mozzarella lituana. Un made in Italy che è insomma il risultato di ingredienti provenienti da quattro continenti diversi.

Questo prodotto globalizzato richiede forse tutele speciali da parte dell’apparato pubblico? La risposta è no, per due motivi. Anzitutto, perché la società civile possiede già gli strumenti per supervisionare la qualità dei servizi di ristorazione (e non solo). Chiunque abbia la necessità di trovare una buona pizza in Italia può facilmente servirsi di portali come TripAdvisor o Yelp i quali, in concorrenza fra loro, non soltanto offrono una vetrina per le valutazioni dei consumatori sui luoghi di ristorazione, ma possono anche rilasciare certificati di eccellenza per le strutture che abbiano ottenuto un certo punteggio in virtù delle recensioni positive degli utenti. In secondo luogo, perché un monopolio pubblico della certificazione rende un certo settore necessariamente meno rispondente alle novità offerte dal mercato. La necessità di passare per il vaglio dell’autorità pubblica, lenta e inefficiente nello svolgimento delle proprie funzioni, renderà cioè più difficile l’emergere dell’innovazione, con conseguenze negative per lavoratori e consumatori.

La concorrenza che occorre e che fa bene alla crescita, dunque, non è soltanto nelle attività professionali come tali, ma anche nel rilascio delle attestazioni di qualità. Se uno standard di qualità è universalmente considerato valido, è del tutto inutile che lo stato intervenga a farlo rispettare. Se, viceversa, non v’è concordia sugli standard di qualità relativi a un certo bene o servizio, l’imposizione di certi criteri ridurrà la pluralità dell’offerta arrecando danno ad alcuni consumatori (nel nostro caso, ad esempio, a quei consumatori disposti a mangiare una pizza di qualità inferiore pur di risparmiare).

La surreale proposta dell’albo dei pizzaioli, tuttavia, non è che l’ultimo esempio della mancanza di una cultura concorrenziale in Italia. Tra le ultime modifiche al ddl concorrenza c’è la soppressione di due articoli destinati a semplificare alcune procedure a carico delle società a responsabilità limitata. Il primo dei due articoli consentiva la costituzione di una Srl senza la necessità di un atto notarile; il secondo permetteva la sottoscrizione per via digitale dei contratti per il trasferimento delle quote. Due provvedimenti che avrebbero agevolato di molto la vita delle Srl, ma che si sono arenati di fronte alle pressioni di Federnotai e alle proteste, tra gli altri, del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Le due norme, si è sostenuto, avrebbero aperto “un varco formidabile” alle associazioni criminali e mafiose. Per correggere un sistema che ha storicamente prosperato grazie alla connivenza con il pubblico, si è così invocata una maggiore presenza del pubblico stesso, anche se a danno delle molte società virtuose che avrebbero beneficiato di un alleggerimento degli oneri economici e amministrativi.

Così, non soltanto il disegno di legge sulla concorrenza ha visto dilatarsi enormemente i tempi di approvazione, ma questo ritardo ha finito per aprire la via all’introduzione di norme decisamente anticoncorrenziali, come i nuovi vincoli alle società odontoiatriche o l’impossibilità per le banche di operare come agenti immobiliari. Norme, in breve, che imbrigliano ulteriormente gli sforzi degli attori sul mercato, con un impatto negativo sul risparmio, sull’occupazione e sulla crescita. Con il rischio (e qualcosa più di un rischio) che le imprese esistenti utilizzino il proprio ingegno per cercare nel pubblico una protezione per la propria attività, anziché per offrire servizi migliori ai cittadini.

Nella mappatura del livello di qualità regolatoria fra i paesi OCSE, l’Italia è contrassegnata da un tiepido arancione, senza particolari segnali di miglioramento, e con un punteggio ben lontano dai “best performer”. Tutta la letteratura economica è concorde sul fatto che riforme concorrenziali siano importanti per favorire la crescita. Eppure, a dispetto del preoccupante deficit di produttività che oggi sconta il nostro paese, il legislatore non trova il coraggio di sterzare in direzione contraria. Ma non possiamo permetterci di tergiversare ancora a lungo: la lunga stagnazione dell’economia italiana ci impone di creare un ambiente in cui a prosperare siano le imprese che incontrano l’esigenza del consumatore, invece che quelle che possono contare sull’appoggio del legislatore o sulla protezione di categoria.