Bocciare una buona riforma, in nome di una riforma migliore? È già accaduto nel 2006, rischia di succedere di nuovo con conseguenze ancora più gravi. Agli errori si ripara, all'immobilismo no, sulla Costituzione e non solo. Come nel Regno Unito, il "voto contro" potrebbe vincere il referendum, ma perdere il controllo della situazione. Non sarebbe una battuta d'arresto per Renzi, ma per l'Italia, con pericolosi effetti a catena.

Della Vedova rotaie

Ho votato a favore della riforma costituzionale in Senato, dunque voterò senz'altro SÌ al referendum (o a tutti i referendum, se la Cassazione o la Consulta dovessero avallare la tesi, da molti avanzata e per me assai ardita, dello "spacchettamento"). Avrei votato SÌ anche se non fossi stato coinvolto direttamente nell'approvazione della riforma, per le stesse ragioni per cui votai SÌ nel 2006 al referendum confermativo della legge di revisione Berlusconi-Calderoli, approvata quando non ero parlamentare.

Partiamo proprio da lì: anche quella riforma non era la migliore possibile, naturalmente; ma quando mai ne troveremmo una? Il meccanismo benaltrista è piuttosto semplice, allora come ora: riformare la Costituzione è certo necessario, "ma non così, ci vuole altro!". Nel 2006 era difficile trovare sostenitori per la riforma costituzionale approvata alla fine della XIV legislatura. Eppure oggi è frequente sentir dire, da parte dei favorevoli di allora e pure di qualche contrario, che la riforma Calderoli era meglio di quella Boschi e che quindi, ad ottobre, occorre votare No.

Ecco, bocciando la legge di revisione nel 2006 abbiamo buttato al vento dieci anni per trovarci a rimpiangere, e non solo strumentalmente, di aver cestinato un testo perfettibile, ma che andava nella direzione giusta su alcune delle issues che ritornano ciclicamente nel nostro dibattito costituzionale: il superamento del bicameralismo paritario e la razionalizzazione del procedimento legislativo; la revisione del riparto delle competenze tra Stato e Regioni e il ripristino di clausole di supremazia della legislazione statale a tutela dell'interesse nazionale, sacrificate, un po' sbrigativamente, nel 2001; la stabilizzazione degli esecutivi e il disincentivo al trasformismo parlamentare; la riduzione del numero di deputati e senatori e del costo di funzionamento delle istituzioni.

Oggi, per furia iconoclasta o più banalmente per colpire Renzi, che con la sua riforma è tornato su questi temi, in molti chiedono di buttare altri dieci anni, di ripartire nuovamente da zero e nel frattempo di conservare una Carta che tutti chiedono di adattare ai tempi ma troppi in realtà preferiscono immutata e intoccabile, anche come comodo alibi per i propri insuccessi. Il feticismo costituzionale - "la Costituzione non si tocca!" - e il perfettismo riformatore - "la riforma è inadeguata e pericolosa!" - sono due facce della stessa medaglia, due sintomi della stessa sindrome immobilistica.

Ovvio, il merito conta. E noi, come spieghiamo in questo numero di Strade, siamo convinti che anche questa riforma migliori di gran lunga, puntando a obiettivi largamente condivisi negli ultimi decenni, la Costituzione del 1948 e corregga, in modo razionale, alcuni degli errori compiuti con la riforma del 2001, che non ha dato grande prova di sé, cronicizzando un rapporto tra Stato e regioni inefficiente e conflittuale, ma, per ironia della sorte, è stata la meno avversata tra quelle approvate nella cosiddetta Seconda Repubblica.

Certo, anche la riforma approvata in questa legislatura è nata da un compromesso, come era logico e necessario, e risente del fatto che alcuni di quanti parteciparono alla sua prima stesura si siano strumentalmente ritirati dalla partita e abbiano cominciato a sparare contro un "prodotto" di cui erano stati, almeno all'inizio, partecipi e responsabili.

Perché i nemici odierni di Renzi, "esterni" ed "interni", non si ritrovino poi nel 2026 a bocciare senza se e senza ma una nuova riforma costituzionale per un'Italia declinante sostenendo che "anche quella della Boschi era migliore", oggi occorre votare sì. Gli errori si correggono. I ritardi non si recuperano.

Nulla e nessuno impedirà, negli anni a venire, di reintervenire sulle parti che si dimostrassero, alla prova dei fatti, inadeguate: in Germania la Costituzione è stata modificata più di cinquanta volte dal 1949, la manutenzione della Carta fondamentale è un'attività delicata, ma ordinaria, nei paesi che vogliono tenere aggiornato il proprio sistema costituzionale.

Peraltro, il futuro della riforma dipenderà dalla volontà e dalla serietà di chi dovrà attuarla e mantenerne le promesse, come e più che dalla sua lettera. Calamandrei ammoniva che "la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità".

Chi sostiene che la riforma costituzionale unita all'Italicum (il cui destino sembra restare incerto) delinei un assetto autoritario risponde forse a un riflesso autobiografico, confondendo la realtà con un proprio inconfessabile desiderio. La riforma costituzionale non prevede il rafforzamento dei poteri del primo ministro e non introduce neppure il premierato, che peraltro caratterizza - è il caso di ricordarlo - grandi democrazie occidentali, non oscure autocrazie "esotiche".

L'Italicum assicura al partito vincente una maggioranza di appena 25 deputati alla Camera, la sola che, a riforma approvata, voterebbe la fiducia al governo; un premio tutt'altro che abnorme, che rischia casomai di non reggere alla prima inevitabile fronda interna al partito di governo, a maggior ragione in un gruppo parlamentare di maggioranza composto in larga parte da eletti con le sciagurate preferenze, che si sentiranno per questo "eletti più eletti degli altri" e potrebbero in molti casi comportarsi come degli altri anarcoidi capataz.

Inoltre, a proposito degli istituti di garanzia, che i nemici della riforma giudicano irrimediabilmente compromessi, proprio il combinato disposto di Italicum e riforma costituzionale rende impossibile ciò che con l'attuale Costituzione era ampiamente possibile ed è puntualmente avvenuto, cioè l'elezione di un capo dello Stato con i soli voti dei parlamentari appartenenti alla maggioranza di governo. Dove sarebbe, allora, il rischio autoritario?

Se la riforma verrà bocciata il mondo non si fermerà e neppure l'Italia; ovvio che chi ha più responsabilità dovrà gestire le conseguenze della bocciatura. Ma sarà una battuta d'arresto non per Renzi, bensì per il Paese: le fragilità dell'economia e della finanza pubblica italiana, affrontate con vigore dal governo Monti in poi, restano pesanti e una nuova crisi di leadership politica e di governo comporterà un drastico peggioramento dello scenario nazionale e europeo e nuovi dubbi sulla tenuta dell'Italia e dell'euro.

Lo dico ora per allora a quanti voteranno No "perché Renzi ha stancato e comunque morto un Papa se ne fa un altro": nessuno dei sostenitori di un no strumentale e politicista sarà autorizzato a gridare al complotto se nel mirino, dopo la sconfitta del referendum, finiranno, più di oggi, il nostro debito pubblico e le nostre banche.

La Brexit è partita, ben al di là del merito, come una sfida tutta giocata sulla politica domestica e di partito: come previsto, il gioco è sfuggito di mano e tutti ora si leccano le ferite per un risultato democratico dei cui esiti sistemici, dentro e fuori dal Regno Unito, molti rinnegano la paternità e la responsabilità. Così potrebbe essere per il referendum costituzionale del prossimo autunno.

Non è un ricatto, è una chiamata alla responsabilità. Per questo sarebbe saggio e lungimirante non ripetere l'errore del 2006. Si approvi la Costituzione riformata in meglio e si riporti la lotta politica ed elettorale sul terreno della sfida programmatica e di visione - se c'è e quando c'è. Agli errori si riparerà, all'immobilismo no.