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Nel variopinto assembramento che compone il fronte del No alla riforma costituzionale, al voto il 4 dicembre prossimo, si alternano con gran varietà diversi argomenti di contrarietà, più o meno solidi e comprensibili. Si spazia da questioni di natura istituzionale ad argomentazioni più precise, dai grandi princìpi violati dalla riforma all’analisi delle minuzie su come sono stati scritti i passaggi dei singoli articoli modificati.

In questo grande calderone argomentativo, sembra possibile però isolare un fil rouge che accomuna un’ottima parte dei ragionamenti che stanno dietro ai no: “si poteva fare di più”. Qualche esempio, in ordine sparso: il Senato non viene completamente abolito, ma passa ad una sorta di camera delle autonomie; i senatori non spariscono, ma semplicemente si riducono; non si risparmiano 500 milioni come dice il governo, ma 100 e c’è chi dice 50; il ping-pong tra Camera e Senato rimane per molte fattispecie, non è quindi completamente abolito. Si potrebbe andare avanti a piacere, rimanendo peraltro sorpresi da come molte di queste obiezioni possano trovare – in astratto, cioè lontano dall’arte del compromesso continuo che spesso è la politica – il loro senso.

Ora, quello del “si poteva fare di più” è un principio direi universale non solo della politica, ma all’incirca di qualsiasi attività, che viene in questo caso brandito come una clava per invitare le persone a far sì che, visto che si poteva fare di più, è meglio non fare niente. Il non sequitur si nasconde infatti nel pretendere che qualcuno di questi argomenti possa portare logicamente a votare No, cioè a ottenere il risultato di ritrovarsi senza nessuno di questi (perfettibili, certo!) cambiamenti.

È un problema di logica del dibattito, non di posizione politica. Scegliere di votare No perché “si poteva fare di più” equivale a negare una relazione transitiva, cioè uno di quei principi che regola il mondo dei ragionamenti: A (la situazione attuale) è peggio di B (la situazione dopo la riforma ), che è peggio di C (una riforma migliore). Magicamente, e contrariamente a qualsiasi sensata relazione d’ordine, A diventa però meglio di B: votare No e lasciare tutto nella situazione peggiore è preferibile a votare Sì ottenendo un cambiamento marginale ma positivo.

Intorno a questo referendum, lo scollamento del dibattito dal merito del quesito è – come troppo spesso accade, e pensiamo al recente referendum sulle trivelle – paradossale. La discussione pubblica è infestata dall’assunto inesistente che se vince il No sarà approvata una riforma migliore, e governo e parlamento saranno spronati a fare di più e meglio. Non solo non è così, ma è addirittura molto peggio: la vittoria del No è l’alibi perfetto per rimandare qualsiasi riforma costituzionale per qualche altra decina di anni, perché “gli elettori si sono già espressi”.

Non apprezzare la riforma, non condividerne l’assunto e l’indirizzo e decidere conseguentemente di votare no è perfettamente legittimo – e mi sembra superfluo dirlo. Ma il Senato se non viene abolito viene comunque trasformato e depotenziato, le poltrone se non cancellate vengono comunque tagliate, i risparmi se non sono di 500 milioni di euro all’anno hanno comunque un segno positivo, il delirante ping-pong tra le camere paritarie se non completamente rimosso viene comunque riservato a un numero contenuto di provvedimenti, e così via.

Ecco, chi ritiene che queste scelte vadano comunque in una direzione corretta e auspicabile – e non ritiene che ci siano altri problemi insormontabili nella riforma, tali da volerla affondare tutta – ci pensi bene a votare No. Passerà molto tempo prima che verrà di nuovo consultato.