Lo sguardo chiaro e corrucciato della ragazza rappresentata nella celebre foto di Steve McCurry rompe un paradigma, mostrandola come “soggetto” e non solo “oggetto” della rappresentazione artistica: un soggetto attivo che guarda, piuttosto che essere guardato.

Strati RagazzaAfganaSteve McCurry, Peshawar, Pakistan, 1984 ©copyright Steve McCurry

Decenni di lavoro nel mondo dell’arte contemporanea, nel ruolo di quello che una volta si diceva un “critico militante”, non possono che avermi insegnato una cosa: l’arte contemporanea poco ha a che fare con il mondo delle persone comuni e reali, che spesso frequentano i musei delle loro città nelle domeniche vuote, se proprio non c’è nulla di meglio da fare. La qual cosa è ovviamente un gran peccato, perché l’arte potrebbe dare loro molte più cose di quelle che loro stessi credono. Perché l’arte è sì esperienza del bello, ma un’esperienza molto particolare.

Contrariamente a quanto si crede, ad esempio, non è necessario che l’arte piaccia: è molto più importante che essa sia in grado di suscitare in chi guarda delle domande. È bello quando l’arte stimola la discussione, l’interpretazione, invogliando le persone all’uso del proprio intelletto in maniera autonoma e indipendente. Tutti obiettivi difficilmente raggiungibili da altre forme di espressione meno sofisticate quali i videogiochi, la televisione o, genericamente, il web, dove manipolare il fruitore è più immediatamente e banalmente utile che rischiare di suscitargli una riflessione.

L’arte stessa però, o meglio coloro che la promuovono e portano in giro più o meno metaforicamente per il mondo, spesso preferisce autodefinirsi come elitaria e di difficile lettura. E così troppo spesso è incapace di mettersi in dialogo, aprire il confronto con le persone reali, anche colte, ma che non hanno forgiato le proprie capacità ermeneutiche in una certa direzione, magari preferendo temi apparentemente di più immediata attualità. Capita però che alcune opere varchino il limite invisibile, ma ben definito, tra mondo della cultura e mondo della vita.

È il caso delle opere fotografiche di Steve McCurry, fotografo americano di fama internazionale, i cui lavori sono attualmente in mostra presso la Citroniera delle Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria, a Torino. La mostra comprende ben 250 scatti e illustra in maniera consistente la storia del percorso artistico di McCurry come fotografo e narratore, tra immagini di guerra, letture intensamente liriche della realtà e altre visioni.
Si tratta di immagini belle, dove la capacità di racconto non è mai affabulatoria, ma sempre realistica, eppure poetica.

Oggetto delle fotografie di McCurry sono vere narrazioni di vite umane, storie che hanno a che fare con alcuni momenti e luoghi cruciali del panorama sociopolitico internazionale degli ultimi decenni. Un esempio, famosissimo, fra tutti, sono le fotografie scattate tra il 1979 e il 1980 da McCurry in Afghanistan, dove l’artista s’intrufolò al seguito dei mujaheddin che combattevano contro i sovietici, e nel campo profughi pakistano di Peshawar. In queste immagini c’è la denuncia, la narrazione, la poesia delle luci e delle ombre e la loro bellezza. Ma ciò che è più importante, McCurry coglie il punto d’intersezione non ovvio tra storia personale e collettiva, dimensione storica e politica e vicenda umana, esistenziale, del singolo.

Tra le varie fotografie di Steve McCurry, ce n’è però una che ha fatto il giro del mondo e rimane impressa nell’immaginario collettivo più di qualunque altra.

Si tratta de La ragazza afgana. È un’immagine dalla struttura semplice, sostanzialmente classica. Lì, gli occhi di una giovane donna afgana ci guardano con l’intensità di una icona sacra. Hanno dentro tutto: la paura e la speranza, il timore del pericolo e il desiderio di pace. Eppure quello sguardo, che guarda prima di essere guardato, delimita semplicemente un volto. Nient’altro che un volto di donna. Perché ci colpisce tanto?

Forse perché siamo abituati alle facce da selfie con cui ci presentiamo gli uni agli altri, letteralmente affacciati alle vetrine dei nostri profili social. Forse perché noi, complici di un modo di pensare figlio dei talent show, degli amori criminali e della politica urlata dai blog, abbiamo fatto tristemente il callo all’estemporaneità di ciò che conforma le persone le une alle altre, perdendo così il fascino per la scintilla dell’unicità e della personalità. Ma nel caos generale La ragazza afgana ci impone un gesto semplice e sempre più raro. Semplicemente fermarci per qualche minuto davanti a uno sguardo e guardare a nostra volta.

Si tratta di una donna, e di una donna che proviene da una storia sociale e politica drammatica. Dal punto di vista della nostra cultura fallogocentrica, come avrebbe detto Derrida qualche anno fa, la donna della foto rappresenta “l’altro” al cento per cento: perché è esponente di una cultura non occidentale e i tratti del suo volto, come il velo sul capo, testimoniano la sua non appartenenza al nostro mondo quotidiano. Ma è altro anche e soprattutto perché è una donna, ed è una donna che, prima di farsi guardare, guarda.

Intorno a questa rotazione del punto di vista dello sguardo sta gran parte della portata politicamente interessante dell’opera di McCurry, intendendo qui il termine politica nel senso più ampio e più immediatamente compromesso con la nostra realtà quotidiana, di vita, di lavoro e di relazione che possiamo pensare.

È persino banale o ridondante dirlo. Le donne - ma non solo - a cui i media ci hanno abituato, spesso si pongono agli occhi di chi guarda in maniera passiva e manca, nei loro confronti, un elementare rispetto. Quello che consiste nel riconoscere loro la capacità di sguardo, inteso come capacità attiva, vivace e viva. Con Lévinas, li riconosciamo come volti: non solo oggetti passivamente assoggettati allo sguardo altrui, ma persone che guardano, vedono chiaramente e altrettanto chiaramente scelgono e giudicano.

Simili e diversi al contempo a quelli dei soggetti degli antichi ritratti bizantini, gli occhi della ragazza afgana ci guardano, e così facendo per prima cosa rivendicano il suo diritto di esistere.

Ma quegli occhi rivendicano anche un altro diritto, che potremmo chiamare il diritto allo sguardo. Sguardo che è proprio di un individuo capace di dire, sentire ed esprimere la propria personale visione del mondo al di là di pregiudizi e prevaricazioni. E che nessun pregiudizio e nessuna prevaricazione, sia essa velata da bonario paternalismo o ironica goliardia, o persino esplicita espressione di guerra o violenza, sarà mai capace di sopprimere.