aylan

Cosa ci è accaduto quando abbiamo visto la foto di Aylan Kurdi? Tre anni, siriano, annegato. L'ha spiegato Janelle Jones, del dipartimento di psicologia sociale della Queen Mary University di Londra: l'immagine, ha scritto, è diventata particolarmente virale perché in grado di produrre una profonda operazione di re-frame.

La foto, in sostanza, ci ha costretto a guardare con occhi nuovi i migranti. Nel bambino – nel corpo, negli abiti, nella posa, come se dormisse - non c'è nessun segno di alterità: il rifugiato, archetipo dell'outsider, è diventato con Aylan familiare. Identico a uno qualunque dei nostri bambini – decine di migliaia di persone, per esempio, hanno usato su Twitter l'hashtag #peoplenotmigrants, persone non migranti.

La foto – di fronte alla quale anche l'autrice, Nilufer Demir, ha dichiarato di sentirsi “spiazzata” - ha avuto quindi un profondo impatto non solo di natura emotiva, ma narrativa. Aylan, però, non è stato il primo bambino a morire tragicamente - secondo la Commissione Europea, per esempio, il conflitto in Siria ha innescato la più grande crisi umanitaria dopo la Seconda Guerra Mondiale  – e, quel giorno, non è stato nemmeno il solo - con lui ne sono affogati altri quattro, tra cui il fratellino, di cinque anni. Eppure la sua immagine ha cambiato la nostra percezione degli eventi. Non solo perché Nadim Houry, direttore di Human Rights Watch per il Medio Oriente e il Nord Africa, l'ha postata twittando: «il più grande atto di accusa di un fallimento collettivo», e nemmeno perché, come ha scritto Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, i bambini ritratti in una immagine di guerra sono per sempre, eternamente, vittime innocenti.

Se, infatti, alla base del meccanismo di condivisione dello scatto c'è un impulso tipico nei social media – la volontà di rappresentare il sé ideale, come spiega lo psicologo Carl Rogers, per cui postiamo quello che ci fa sentire buoni e giusti, proprio come vorremmo essere – la foto contiene qualcosa di più. Secondo la psicologa clinica Aya Mhanna, intervistata da ThinkProgress, si tratterebbe di un elemento chiave, lo stesso presente nella foto dei ragazzi palestinesi uccisi a Gaza, in spiaggia, mentre giocavano a calcio: la giustapposizione.

L'immagine, ha spiegato «contraddice la percezione usuale delle cose». Il bambino sembra dormire, mentre muore, e non si trova in un luogo lugubre, o cupo, destinato al dolore. Ma è in spiaggia, posto potenzialmente felice, in grado di evocare l'estate, il sole, il gioco. Tutto, nella composizione dell'immagine, nega la realtà. Ogni particolare ci impone di ripensarla. Inoltre, mentre di fronte all'immagine di un adulto le persone tendono a razionalizzare le proprie opinioni – chiedendosi, per esempio, quale storia, o colpa persino, avesse - la morte di un bambino, solo, senza madre né padre accanto, è ancora più sconcertante.

Non solo. Tra le ragioni per cui una immagine dolorosa viene condivisa più di altre c'è anche il fenomeno psicologico del collasso della compassione. Le persone, in sostanza, proverebbero meno empatia per la sofferenza dei gruppi piuttosto che per il dolore dei singoli individui. E l'empatia potrebbe diminuire, in maniera perversa, proprio mentre il numero delle vittime di un evento aumenta. Abbiamo bisogno, quindi, di singole storie per emozionarci, di specifiche vite per provare empatia e metterci nei panni degli altri. I bambini, inoltre, come ha scritto Jacoba Urist in un articolo del The Atlantic sulle ragioni per cui alcune morti meritano più di altre di essere raccontate e fotografate «possono colmare le distanze tra l'osservatore e l'osservato». E così spingerci a superare le differenze di etnia, status, cultura – distanze che, secondo gli autori del paper Racism and the Empathy for Pain on Our Skin, ci porterebbero ad avvertire meno il dolore degli altri rispetto a quello di chi è più simile a noi.

E se la condivisione sui social media della foto potrebbe comportare l'oggettivizzazione dell'immagine - che diventa, così, qualcos'altro da sé, un puro oggetto sociale da scambiare, privato del significato specifico e originario – quella che resta è la trasformazione narrativa delle migrazioni. Non più – o non solo – invasioni di alieni, ma incontri con gli indifesi – i siriani arrivati in Germania, per esempio, tra gli applausi di chi li ha accolti, considerati eroi, capaci di compiere un gesto epico e pericoloso come la traversata. Un'altra immagine virale, iconica, condivisa. Capace, proprio come la foto di Aylan, di evocare storie umane, vite intime e collettive, destini privati e pubblici insieme. Tutto in un solo scatto.