Milano is the new Londra. Perché no?
Luglio/Agosto 2016 / Innovazione e mercato
Negli ultimi anni, Milano si è distinta per lo sviluppo della sua dimensione metropolitana in senso europeo e smart, in controtendenza rispetto al resto d’Italia. Con i nuovi scenari aperti dalla Brexit, la capitale economica del nostro Paese può puntare molto in alto.
Dopo le ultime elezioni amministrative che, populismi imperanti in tutta Europa, hanno portato a Londra Sadiq Khan, sindaco musulmano di origini pakistane, e a Milano due candidati europei, liberali, gentlemen: Beppe Sala e Stefano Parisi. Dopo Brexit e Londra che invece vota Remain e adesso, pur godendo già di forte autonomia amministrativa, esprime l’esigenza di poteri autonomi ulteriori perché con l’UK fuori dall’Europa la capitale della finanza, della creatività, dei servizi, cesserebbe di essere Londra.
Dopo Expo e la 'primavera urbana' che Milano ha cominciato a vivere in effetti già prima di Expo, e che il merito lo deve anche ad un disegno di città pensato addirittura molto prima di Expo. Dopo l’iscrizione (o il ritorno) di Milano allo status di capitale d’Europa - per l’attrattività accademica, economica, professionale ma anche per la qualità della vita (mentre Roma stenta a dimostrare di meritare quello di Capitale d’Italia).
Dopo questi fatti, e gli ancora più numerosi e complessi fenomeni che vi stanno dentro, la “londonizzazione” di Milano è un dato cogente, acclarato ormai anche negli aperitivi en terrasse.
La dimensione metropolitana come nodo strategico delle connessioni globali, e dunque come cifra anti-nazionalista sebbene locale della globalizzazione, è al centro di un’investigazione accademica estesa. Dunque su questo non si rileva qui nulla di nuovo. Il tema è la funzione sistemica nelle dinamiche globali che le città-metropoli assolvono in un ruolo talvolta istituzionalmente autonomo dallo stato centrale - sebbene non sia questo (ancora) il caso di Milano; oppure, ed è il caso di Londra, interpretando una funzione trans-nazionale de facto, se non (ancora) di diritto.
Concentriamoci su Milano, che è sempre meno Italia e sempre più una cosa a sé - entità socio-politicamente distinta e non necessariamente omogenea al paese di appartenenza e che, pur senza l’autonomia della Città-Stato (Milano è solo Città metropolitana), è già almeno un po’ trans-città.
La “londinesità” di Milano non è la lista delle cose che Milano ha in comune con Londra, ma la specificità della vocazione metropolitana articolata su alcuni tratti socio-politico-culturali che, con Sun Tzu, chiameremo: intelligenza degli uomini, apertura al mondo, attenzione al momento presente.
Intelligenza degli uomini
Skyline. I grattacieli griffati e i quartieri che ne traggono vita sono un’idea di Gabriele Albertini, il sindaco amministratore di condominio, predecessore di Letizia Moratti, Giuliano Pisapia e Beppe Sala. A lui si deve la “visione” di una città che si raccontasse nuova e viva, e lo facesse attraverso un suo nuovo vivo skyline. La Milano che punta verso l’alto appariva all’epoca contro-natura, architettonicamente antiquata, una provinciale emulazione di Londra con la sua City e le sue archistar, una breccia nella Milano romantica delle corti di ringhiera e le terrazze sui tetti.
La visione Albertini, in realtà, non convinceva nemmeno per un altro motivo: la paura della speculazione immobiliare - come suggeriva di temere, d’altronde, la storia che proprio in quegli anni veniva raccontata di Santa Giulia, ennesimo ambizioso progetto di sviluppo residenziale che sulla carta avrebbe dovuto essere un paradiso di trasformazione urbana ma che nella realtà si è rivelato un incubo finito in procura.
I grattacieli di Albertini invece sono riusciti a creare una nuova Milano vera, che guarda in alto e dall’alto vede meglio anche le cose belle che aveva metaforicamente in basso e che non sempre, non tutti, potevano prima vedere.
Murales. I fondi sovrani arabi a Milano si tengono con i writer, la materialità capitalista con la creatività alter-sistema. Anche i writer sono stati a lungo considerati problema, semi-delinquenti da centro sociale. Si deve all’amministrazione Pisapia averne fatto una non retorica opportunità. Incrociare i nuovi bisogni dei milanesi non-imbruttiti, favorire l’accoglienza invece di perseguire l’esclusione delle intelligenze diffuse in città (che ovviamente non si limitano ai writer). Milano ne ha beneficiato sia sotto il profilo della ricomposizione del conflitto, sia sotto quello della produttività dei fattori (sottostimati) di potenziale generatività. Dare colore al grigiore e armonia alla rigidità non è contro-economico né è ideologia freak, se già oggi gli artisti dei muri vengono reclutati dai condomini milanesi per fare di un’anonima facciata privata un’opera d’arte a fruizione pubblica.
Il Milanese Imbruttito. Milano ha imparato a prendersi in giro, e non appaia una considerazione banale. Il Milanese Imbruttito è un sito di satira antropologica, un’aggiornata antologia di manifestazioni della milanesità ironicamente aggredibile; una voce che ha influito non poco (forse anche più della solita cultura, del solito design) su una più bonaria percezione dei non-milanesi verso i milanesi e sulla stessa coscienza dei milanesi verso di sé. Il milanese che poi non è praticamente mai milanese-milanese ma che in realtà lo diventa (Milano, come Londra, è di chi ci vive) viene rappresentato brutalmente al naturale - fotografato, intervistato. Antropologia pura. L’auto-ironia, che pure non è la più comune delle virtù milanesi, ha invece cominciato ad essere fonte preziosa di auto-conoscenza. Poi anche un sorriso a Milano fa generare Pil.
Apertura al mondo
Family Day. Il peso politico della Lombardia clerical-leghista è forte. Sette medici lombardi su dieci continuano ad essere obiettori. E tuttavia l’uso ideologico-privatistico dell’istituzione regionale alla vigilia di una festa di piazza per le unioni civili è stato respinto a furor di ilarità. Il Pirellone illuminato dalla scritta Family Day non è apparso ostile, è apparso alieno. Milano è una città arcobaleno de facto, e la tolleranza non c’entra granché: c’entra l’industria della moda e della creatività, c’entrano lo spettacolo, l’arte, l’editoria e la fisiologica propensione della Milano comune a vivere di realtà. L’autorità politica che si fa censore morale dei costumi diffusi non è riconoscibile a Milano come “autorità”.
Expo. Expo è stato un evento, non un momento di cambiamento sistemico. Ha portato vivacità, colore, attenzione ma non nuovi saperi, non nuove eredità. D’altronde la rappresentanza etnica nell’offerta gastronomica, artistica, commerciale a Milano era avanguardista anche prima della esposizione fieristica di Rho. Expo è stata apertura commerciale, più che culturale, al mondo, e questo no, non rappresenta una vocazione nuova, ne rinnova una antica. Vocazione legittima, opportuna ma forse troppo codificata in una tradizione che le ormai diffuse connessioni globali hanno reso sempre meno attuale. Chiuso il periferico Expo, si apre la trans-nazionale Milano - sempre che sia corretto intendere così la collaborazione di Emma Bonino con la nuova giunta del sindaco Sala.
Chinatown. Via Paolo Sarpi, la storica Chinatown milanese, in pochi anni è passata da quartiere esotico a quartiere ghetto, degradato da una incontrollata cinesizzazione degli spazi commerciali, la scomparsa dei negozi nativi (libreria Feltrinelli compresa), l’ingestibile sviluppo di attività all’ingrosso: una rovina per vivibilità e integrazione. La dimensione razziale del degrado era una delle questioni che facevano i titoli dei giornali durante la sindacatura di Letizia Moratti. E la soluzione comincia in effetti a trovarsi là, con la pedonalizzazione della strada e lo spostamento delle attività all’ingrosso fuori dalla cerchia centrale. Oggi Sarpi è ri-gentrificata di ‘milanesi’ e i cinesi aprono boutique e locali alla moda. Il quartiere resta a prevalenza cinese ma a suo modo è diventato cool. In una apparizione televisiva nei mesi precedenti le ultime amministrative, Matteo Salvini ebbe l’imprudenza di riferirsi a Sarpi come fosse ancora il simbolo del degrado immigratorio che il solo evocare suscitava patema. Prima, ma ora no. Uno sguardo ai prezzi al metro quadro delle case, una passeggiata una sera qualsiasi lungo l’isola pedonale puntellata di dehors: ci si può formare un’opinione da soli.
Attenzione al momento presente
Bici. Muoversi in bici perché è più veloce, facile ed economico che muoversi in tram; o muoversi in tram o metro o bus perché è più rapido e anti-stress che andare in auto. Fare shopping o prendere un caffè in un’area pedonale perché è più piacevole che farlo nel frastuono, la puzza, la scarsa agibilità di un letto di auto sdraiate sul marciapiede. E i parchi che la sera non fanno paura e che di giorno sono per i bambini, i cani, quelli che un po’ di lavoro se lo fanno lì, su una panchina non lontana dal wifi. Sono le cose che notiamo e apprezziamo quando le sperimentiamo all’estero. Sono cose - anche queste - che fanno qualità nella vita della Milano di oggi. La qualità della vita ambientale è il cuore socio-politico delle grandi città contemporanee. Negli anni di Pisapia si è data attenzione politica, o si è mostrato di darla, a quel bisogno. Non è (solo) ecologismo di maniera. La vita ambientale - dalla mobilità all’efficienza energetica alla conversione ecologica del costruito inquinante - ma anche la partecipazione democratica alle scelte di governo ambientale locale, sono dimensioni attuali della politica metropolitana. Su questo, come sui temi connessi alle migrazioni, le metropoli europee sono già più autori che attori politici. Lo è anche Milano.
Periferie. La Milano raccontata qui su non è la città che si estende aldilà del centro. Fuori dal centro Milano è periferia. Il neosindaco Sala si è impegnato a dare una ridefinizione poli-centrica alla città. Lo ha fatto anche simbolicamente con la prima giunta convocata al Giambellino, quartiere storico dell’ “altra Milano”. La missione è complessa ma anche dirimente. Evidentemente una Milano zavorrata da una costellazione di quartieri a cui la dimensione metropolitana del centro resta estranea non potrà mantenersi a lungo metropoli. Non potrà mantenersi aperta, accogliente, tollerante, creativa, cooperante se pezzi di città sono una cosa diversa dalla città che le targhe sulle auto dicono di essere. Perché possa essere a sua volta ‘centro’, una periferia deve potersi sentire al centro di una dimensione sociale, produttiva, ricreativa e infrastrutturale armonica con l’identità e le potenzialità del quartiere. Si constaterà quanto, in questo persino semplicistico tratteggio sulle periferie, vi sia la questione cruciale dei nostri tempi: il confine tra noi e gli altri. Attenzione al momento presente, appunto.
Milano come Londra
In questa arbitraria, parziale, niente affatto definitiva raccolta di suggestioni si vede una Milano che è un po’ Londra, un po’ Berlino, un po’ Parigi e un po’ anche no. Si vede un po’ di Europa aperta, dialogante, inclusiva. Si vede la necessità della dimensione globale e la possibilità della valorizzazione locale. Si vede lo spazio per un protagonismo extra-nazionale - se non addirittura contra-nazionale - della città-metropoli. In fondo per il resto del mondo l’Inghilterra è sempre stata solo Londra. Vedremo se anche l’Italia un giorno diventerà per gli altri solo Milano.
INDICE Luglio/Agosto 2016
Editoriale
Monografica
- Referendum, un sì contro il NIMBY
- Tutti i tic della campagna referendaria
- Italia, si cambia. Intervista a Giovanni Guzzetta
- L'insostenibile leggerezza del No
- La Costituzione del debito pubblico e dei diritti acquisiti
- Italia, quale federalismo?
- I poteri del nuovo Senato, tra reale e percepito
- La questione del governo. Quanto è lontano il ‘48
- Critica di una riforma
- Con la riforma ci sarà più, non meno democrazia
- Se vincesse il No, il giorno dopo
Istituzioni ed economia
Innovazione e mercato
- Milano is the new Londra. Perché no?
- Troppo neoliberismo? Tranquilli, arriva l’albo dei pizzaioli
- Il vaping non è fumo. La rivincita delle sigarette elettroniche