Il dibattito sull’informazione assume contorni sempre più ampi e sfumature sempre più politiche: sempre più siti, associazioni e partiti lanciano campagne basate su notizie non verificate, quando non su vere e proprie menzogne. Tuttavia, un algoritmo anti-bufale non è la soluzione: meglio lasciare la libertà di parola che permetta anche di sbugiardarle.

Villa flebo

Sembra di essere tornati nell’agorà ateniese del V secolo avanti Cristo. Tutti (scienziati, giornalisti, comuni cittadini) sembriamo filosofi impegnati a cercare di definire che cosa sia la verità, e come conseguirla, neutralizzando bufale e false notizie, ormai ribattezzate con l’inglesismo “fake news”. Ma la verità, paradossalmente, è che le notizie a cui crediamo sono quelle che confermano i nostri pregiudizi e sono in linea con il nostro schema di valori.

Vale per tutti. Se sei convinto dell’efficacia dell’omeopatia, tenderai a credere alla testimonianza di una persona che dice di essere guarita da una grave malattia grazie ai miracolosi granuli zuccherini; se sei ostile ai vaccini, troverai particolarmente sospetto il decesso per infarto di un anziano pochi giorni dopo aver ricevuto la vaccinazione contro l’influenza. Viceversa, dimostrerai scetticismo verso l’immagine di un animale maltrattato in laboratorio se sai che la sperimentazione segue criteri rigorosi e può essere compromessa dalla sofferenza delle cavie. Chi appartiene a una parte politica tende a interpretare in maniera più benevola le affermazioni dei propri leader, per quanto siano discutibili, e, al contrario, è pronto a scagliarsi contro un’espressione pronunciata dagli avversari, anche estrapolandola dal contesto.

Il fenomeno è innato ed è ben noto agli esperti di psicologia cognitiva. Si chiama “bias di conferma” ed è amplificato dal meccanismo su cui si basano i social network, dove si selezionano contatti in linea con la propria mentalità, che danno l’illusione di vivere in una “bolla” nella quale tutti la pensano più o meno allo stesso modo e rinforzano l’uno con l’altro le proprie opinioni.

Non è difficile quindi inventare bufale che riscuotano migliaia di like e condivisioni, raccogliendo sostanziosi introiti pubblicitari. Basta annusare l’aria che tira, cogliere le paure, il malessere, le ansie e le preoccupazioni delle persone, e inventare la notizia che la gente vorrebbe sentirsi raccontare: una dichiarazione sgradevole, per esempio, o una falsa correlazione, che sfoghi su un capro espiatorio la colpa di quello che non va, che sia la disoccupazione, la crisi economica o un’epidemia. È su questo principio che si basa il business di siti specializzati come Liberogiornale.com, Ilfattoquotidaino.com, News24tg.com o Gazzettadellasera.com, che storpiano il nome di testate reali - a volte introducendo un refuso, come in “quotidaino” al posto di “quotidiano” - per trarre in inganno il lettore. Sulla rete commerciale che sta dietro a tutto questo hanno portato avanti un’interessantissima inchiesta Paolo Attivissimo e David Puente, che dell’attività di smascheramento delle bufale online, il cosiddetto “debunking”, hanno fatto una missione.

Sempre più spesso in gioco tuttavia non c’è tanto, o solo, il denaro. Come nel caso del gettonatissimo blog di Beppe Grillo, ai click si associano anche voti, che si raccolgono facilmente toccando corde come la pressione fiscale o i costi della politica. È facile anche giocare sulla paura dello straniero, un sentimento atavico che si nutre in alcuni casi di situazioni reali di difficile integrazione. Nascono così le bufale create e diffuse da partiti di estrema destra o da esponenti della Lega, per aumentare il consenso dell’opinione pubblica alle loro politiche refrattarie all’accoglienza.

Ne abbiamo avuto prova in passato, per esempio in occasione dell’epidemia di ebola in Africa occidentale, che è stata più volte occasione di stigma nei confronti di tutti gli africani, che magari provenivano da Paesi più lontani dall’area colpita rispetto all’Europa, o che non uscivano dall’Italia da anni. Di nuovo, la cosa si è ripetuta a Capodanno, con un post sulla pagina Facebook di Forza Nuova che cercava di sfruttare la rilevanza mediatica data al recente aumento dei casi di meningite meningococcica in Toscana. Sovrascritto a un’immagine inquietante, si è diffuso lo slogan: “Meningite. Tutti sappiamo da dove arriva. Basta accoglienza killer”.

Non può sfuggire, in queste parole, il registro comunicativo che caratterizza la maggior parte delle bufale sul web: “Tutti sappiamo”. Un’espressione che va di pari passo con il tipico “Quello che non ci vogliono far sapere”. Un modo per creare complicità e stuzzicare un senso di rivalsa tra persone che si sentono escluse dall’élite che deterrebbe conoscenza e potere. “Ce lo vogliono nascondere, ma noi non siamo ignoranti come ci vogliono dipingere. Anzi, ne capiamo più di loro” si vuole intendere.

E poi l’equazione “accoglienza=meningite”. È l’accoglienza di migranti e rifugiati che sta provocando le morti di cui sentiamo ogni giorno al telegiornale, si vuol far credere. Non ci vuole molto a smontare questa equazione.

Come conferma Epicentro, il portale di epidemiologia per la sanità pubblica dell’Istituto Superiore di Sanità, dal 2 al 30% delle persone sane e senza alcun sintomo ospita nel naso e in gola il batterio Neisseria meningitidis, anche detto meningococco. Per ragioni ancora in gran parte sconosciute, solo in alcune persone e in alcune circostanze il sistema immunitario non riesce a tenere a bada il batterio, che quindi invade l’organismo provocando una malattia fulminante e spesso mortale. I portatori sani sono quindi già moltissimi anche nella popolazione italiana, senza dover cercare una fonte esterna per spiegare la presenza dell’infezione.

Inoltre, la frequenza di questi casi, e in particolare di quelli da meningococco di tipo C, non è aumentata negli ultimi anni in maniera significativa in Italia, se non in Toscana. Se responsabili del fenomeno fossero i flussi migratori, il problema dovrebbe farsi sentire ovunque, oppure essere più rilevante in Sicilia, o in altre regioni in prima linea sul fronte dell’accoglienza. Più debole invece l’argomentazione che esclude il ruolo dei migranti per il fatto che il meningococco responsabile della maggior parte dei casi italiani è di tipo C, mentre in Africa prevalgono quelli A e W.

Per sostenere le proprie tesi xenofobe, Forza Nuova si è infatti rifatta a un documento dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui, nel 2015, si è verificata una recrudescenza del numero di casi registrati nella cosiddetta “fascia della meningite”, un’ampia zona che attraversa l’Africa dal Senegal all’Etiopia e comprende 26 Paesi da cui provengono molti dei migranti che arrivano nel nostro Paese. Secondo questa fonte autorevole, un’intensa campagna di vaccinazione contro i meningococchi A e W negli ultimi anni ha permesso di abbattere i casi di infezione provocati da questi sierotipi, lasciando però spazio al meningococco C, che nel 2015 è stato responsabile della maggioranza dei casi di meningite (47%), soprattutto nel Niger. È questa una prova del ruolo della migrazione nella situazione toscana? Assolutamente no, anche perché il clone di meningococco C che si ritrova in Toscana è ST11, mentre quello africano è completamente diverso, designato dalla sigla ST1021.

Quindi no, la meningite non la portano migranti e rifugiati. Ma il caso che si è scatenato in rete a partire dal post xenofobo di Forza Nuova è utilissimo per spiegare perché conviene coltivare un certo scetticismo verso la possibilità, oltre che l'opportunità, di applicare in rete ulteriori meccanismi di censura, oltre a quelli già esistenti che permettono di segnalare post razzisti e in vario modo offensivi.

A riprova del fatto che non potessero essere i migranti a portare la malattia, per esempio, molti hanno sostenuto che, se la meningite tipica dell’Africa è di tipo A e W, non può esserci un’associazione con la meningite C che si ritrova in Toscana. Abbiamo visto perché questa affermazione è imprecisa, o per lo meno superata dall’analisi dei cloni di meningococco C, che tuttavia conferma l’assunto iniziale. È quindi possibile sostenere ragioni vere con fatti contestabili, o, viceversa, giungere a conclusioni profondamente sbagliate producendo dati reali e attendibili, come hanno fatto gli autori del post di Forza Nuova.

Come si può pensare, dunque, che un algoritmo riesca a distinguere queste situazioni, o a riconoscere un post satirico, del tipo di quelli prodotti da Lercio, da una falsa notizia diffusa intenzionalmente?

Può anche capitare che un sito specializzato nel diffondere disinformazione sui vaccini e le cure per il cancro pubblichi un articolo che, dati alla mano, sostiene qualcosa di vero: per esempio, che in Italia non ci sia attualmente nessuna “emergenza meningite”. Scopo del contenuto, in quel contesto, è ovviamente sostenere che l’informazione ufficiale soffia sul fuoco della paura per alimentare il mercato dei vaccini. Questo è falso, ma altrettanto non si può dire dei fatti che sono riportati, perché è vero che il numero dei casi a livello nazionale è sostanzialmente stabile. Come ci si dovrebbe comportare in questo caso?

Se davvero fosse istituita a Bruxelles una Commissione responsabile di garantire la veridicità delle affermazioni sul web, come ha proposto Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust italiana, in una recente intervista al Financial Times, a questo tipo di informazioni si dovrebbe dare un marchio di “vero” o di “falso”?

Tornando al caso iniziale, il post di Forza Nuova è odioso per la mentalità che esprime, non solo per quel che sostiene. Lo sarebbe anche se denunciasse un fatto vero. Sappiamo che finora migranti e rifugiati non hanno portato malattie in Europa, ma non si può escludere che ciò accada in futuro. La poliomielite, per esempio, ha rifatto capolino in Siria e potrebbe tornare a circolare in Italia, col rischio che colga qualche bambino non vaccinato. È un timore che tra esperti si paventa abitualmente, basato sui fatti, senza nessuna volontà xenofoba. Il punto è proteggere tutti, noi e loro, cosa che per fortuna si può fare, proprio grazie alle vaccinazioni.

Non nascondiamoci quindi dietro le fake news. A nessuno interessa smentire che la terra sia piatta o che sia crollato un ponte sulla Salerno-Reggio Calabria il giorno dopo l'inaugurazione, perché queste cose o non interessano o si neutralizzano da sole, in maniera virale, con la stessa velocità con cui si diffondono. Quel che dà davvero fastidio sono le opinioni, alcune veramente insopportabili, che emergono da Internet, ma che rispecchiano solo quel che molti pensano nel mondo reale. A parte la difficoltà di stabilire quali opinioni siano lecite e quali no, non sarà certo un bollino o una multa a fermarle. Riemergeranno comunque, lasciando sorpresi gli osservatori, come è accaduto nel caso di Brexit o dell’elezione di Trump. Meglio lasciare la libertà di parola che permetta anche di sbugiardarle.