Il consenso politico per il progetto europeo rimane significativo tra i cittadini dell’UE, malgrado il successo delle forze euroscettiche. Ma per rafforzare la fiducia nelle istituzioni e nella politica europea occorre procedere al completamento del mercato unico e al potenziamento del bilancio interno. Con una consapevolezza: se salta l’UE, torneranno ad alzarsi in Europa frontiere non solo politiche, ma anche economiche, e a prevalere sarà un pericoloso cupio dissolvi protezionista.

DelPonte strada

Ammettiamolo, cara Europa: il 2016 è stato un anno da dimenticare. La casa europea scricchiola in modo preoccupante e inizia a perdere pezzi sotto l’urto dei venti nazionalistici che soffiano sul Vecchio Continente e sull’America, di fronte ai quali la politica tradizionale è in grande affanno. Dei protagonisti del Summit di Ventotene, non è rimasta che Angela Merkel. Come in Dieci Piccoli Indiani, i leader cadono uno dopo l’altro, sulla scia della “bomba” Brexit. Perfino in Austria, Paese dove la figura del Presidente della Repubblica è del tutto simbolica, la contesa è stata tra un Verde (il vincitore Van der Bellen) e un nazionalista (Hofer): segno che l’appeal di socialisti e conservatori sta evaporando in fretta.

Neanche il 2017 si apre sotto buoni auspici, date le elezioni imminenti in Francia, Germania e Italia. Tranne che nel caso tedesco (la rielezione di Merkel pare al sicuro), ci sono buone probabilità che la cabina elettorale si trasformi ancora una volta nel luogo per eccellenza dove manifestare la propria rabbia contro il sistema. Gli incerti destini elettorali dei partiti mainstream suggeriscono di non azzardare politiche dirompenti. Si prospetta pertanto un prolungamento della lunga stasi dell’agenda europea, proprio quando servirebbe un cambio di passo. Dunque il proposito più ambizioso (per così dire) del 2017 sembrerebbe la conservazione dell’esistente. Preservare l’Euro, non farsi travolgere dall’ondata migratoria, arginare i partiti populisti, contenere il terrorismo, rallegrarsi di una crescita del PIL poco sopra lo zero come di un risultato straordinario. Limitare i danni, in attesa di tempi migliori.

Tuttavia, perdere altro tempo sarebbe un grave errore. Nel lungo viaggio verso il completamento del mercato unico, preludio economico alla compiutezza dell’Unione politica, l’Europa sta attraversando un terreno paludoso. Sette anni dopo il rapporto di Mario Monti a José Manuel Barroso, allora Presidente della Commissione Europea, sono stati compiuti lodevoli passi avanti, dall’abolizione del roaming ai progressi verso l’Unione Bancaria alla crescente integrazione digitale. Ma la proverbiale lentezza europea nel compiere tali passi, se è sinonimo di prudenza in tempi normali, rischia di trasformarsi in un’insopportabile zavorra in tempi di crisi. Particolarmente dolorosi sono i ritardi nell’avanzamento delle riforme fondamentali: l’integrazione fiscale, energetica, dei trasporti, finanziaria, dei servizi, solo per citarne alcuni.

Non solo si va avanti a rilento, ma si corre il pericolo di tornare indietro di decenni. L’accordo di Schengen, un pilastro del mercato unico, è stato ripetutamente violato da diversi Paesi europei a causa della crisi migratoria. L’Italia lo sa bene, viste la chiusura delle frontiere francesi a Ventimiglia e le minacce austriache di usare il pugno duro sui passaggi al Brennero. Improvvisamente, molti europei si mostrano ciechi e sordi ai benefici del libero scambio, e vedono nella globalizzazione un rischio, più che un’opportunità.

Altri europei, molto ingenuamente, si illudono, seguendo la retorica dei brexiters, che un’area di libero scambio europea possa sopravvivere alla fine dell’architettura costituzionale del mercato comune (le quattro libertà di movimento, il ruolo della Commissione, quello della Corte di Giustizia) e basarsi su accordi commerciali volontari tra stati membri. Invece la realtà è molto più “dura”. L’alternativa al mercato comune e alle sue regole è il ritorno a un’Europa divisa da frontiere non solo politiche, ma anche economiche. Il mercato comune è l’unica area di libero scambio oggi possibile in Europa, e la sopravvivenza dell’Unione è l’unica garanzia per la sua tenuta e l’unico argine al ritorno del vecchio e pernicioso protezionismo europeo.

Per questi motivi, mai come adesso appare necessario ascoltare gli appelli del rapporto Monti. Oggi, ancor più di allora, occorre perseverare senza tentennamenti per creare un mercato unico più forte, dotato di consenso politico stabile e che offra risultati credibili. Soprattutto, un mercato unico forte si basa su regole chiare e non negoziabili una volta in essere. La ricerca del consenso tramite la flessibilità e l’aggiramento delle regole esistenti è una strategia con le gambe molto corte.

L’erosione del consenso per l’integrazione europea è particolarmente allarmante, ma non è difficile comprenderne le origini. Il fatto che l’Europa sia finita sul banco degli imputati nelle menti di molti europei si deve in gran parte al mutamento del contesto macroeconomico. In tempi di crescita economica moderata e assenza di grandi crisi sociali - i primi anni Duemila, definiti l’era della “Grande Moderazione”- un’Unione lenta e macchinosa era non solo accettabile per i cittadini, ma perfino desiderabile per evitare fughe in avanti potenzialmente lesive delle sovranità nazionali. In tempi di crisi, complice la sistematica strategia dello scaricabarile scelta dalla gran parte dei leader europei, ci si aspetta che l’Europa tiri fuori il proverbiale coniglio dal cilindro. Un ruolo che, con un bilancio da meno di 160 miliardi l’anno -poco meno di 300 euro per cittadino-, è solo un miraggio.

Con un bilancio di mera sussistenza, come può l’Europa risolvere i numerosi problemi che affliggono i 28? Proseguire sulla strada dell’integrazione, sia rispetto al mercato unico, sia rispetto al bilancio interno dell’Unione, è una risposta più realistica di quella che, per non indisporre un crescente fronte euroscettico, intendesse lasciare l’Unione a metà del guado, paralizzata dal ripiegamento degli Stati membri e chiamata a rispondere della propria supposta e comunque incolpevole inefficienza.

Ecco, quindi, che la politica europea si trasforma in un reality di sopravvivenza, in cui i vari leader nazionali si contendono le poche risorse disponibili in Europa per brandirle di fronte ai propri elettorati. Come all’Isola dei Famosi o a Nudi e Crudi, quando il gioco si fa duro, si vede ben presto se il gruppo è compatto o meno. Nel nostro caso, ciascun Paese avanza le sue richieste all’Europa; tuttavia, essendo le richieste spesso esagerate o incompatibili tra loro, la tentazione di fare da sé rischia di prendere il sopravvento. Non occorre aver visto tutte le puntate per immaginare come andrà a finire se il gruppo non coopera di fronte alla crisi.

È comunque possibile che alcuni singoli membri se la cavino benissimo da soli, e questo non fa bene allo spirito di gruppo. Immaginiamo che il Regno Unito completi Brexit ed esibisca performance economiche anche solo pari o lievemente migliori rispetto a grandi Paesi dell’Unione come Francia, Germania, Italia o Spagna. Dopo i mantra apocalittici del “Project Fear” e il disprezzo politico manifestato da diversi leader europei e guru di spicco, culminato con la richiesta di una hard Brexit che fosse la più rapida e dolorosa possibile per i britannici, arriverebbe il momento della derisione verso chi è rimasto in Europa, e i dubbi aumenterebbero anche tra gli euroentusiasti stessi.

Da dove cominciare, dunque, per affrontare la lunga serie dei cahier de doléances che affliggono l’Europa? Innanzitutto, occorre un reality check: con le limitate risorse di cui dispone oggi, l’Europa può nel migliore dei casi agire da catalizzatore e valore aggiunto per le potenzialità dei singoli Stati membri, ma non può certo sostituirsi ad essi.

Occorre poi evidenziare gli aspetti per cui il mercato unico porta inequivocabili vantaggi a tutti -o alla gran parte- degli Stati membri. Il mercato unico e, più in generale, l’integrazione europea si possono rivelare le armi più efficaci a nostra disposizione per affrontare le questioni formidabili che abbiamo di fronte. L’epocale ondata migratoria, i cambiamenti climatici, il terrorismo, l’agenda digitale, l’approvvigionamento energetico, l’elusione fiscale delle online corporations, il ruolo politico-economico dell’Europa nel mondo: queste sono solo alcune delle sfide gigantesche che accomunano tutti gli europei. La tentazione di cavarsela da soli e, magari, di portare a casa qualche risultato prestigioso nel breve periodo è forte. Per scatenare una risposta corale e avere successo duraturo, tuttavia, bisogna instillare un forte senso di necessità e urgenza, e comunicare in modo chiaro e diretto che l’unica soluzione efficace al problema è quella comune.

Come dicono gli americani, first things first: prima l’essenziale. Il nazionalismo e il protezionismo si battono innanzitutto affrontando concretamente i problemi della gente comune: disoccupazione e paura del futuro. Insieme alle misure economiche, si deve agire anche sulla macchina politica: non è ammissibile lasciare ai nazionalisti il monopolio della comunicazione con i cittadini.

Proprio sul fronte così importante del consenso politico per il progetto europeo, non tutto è perduto. Dati della European Social Survey (1995, 2003 e 2013) che ho analizzato con Caitlin Davies e Leonie Huddy (Stony Brook), rivelano risultati sorprendenti e che tengono viva la speranza di una ripartenza europea: nonostante le apparenze, il nazionalismo in Europa è rimasto stabile negli ultimi vent’anni. La principale differenza tra Paesi euroscettici e non? La presenza o meno di un partito euroscettico. Ciò fa pensare che la recente ondata nazionalistica sia in buona parte ascrivibile a meri effetti mediatici (cfr. l'articolo di Leonie Huddy, Alessandro Del Ponte e Caitlin Davies, “Nationalism and Support for the EU”, presentato alla conferenza GESIS di Colonia a Novembre 2016).

Un motivo in più per correre ai ripari e dotare finalmente l’Unione Europea di risorse appropriate per interagire con la gente e far dialogare tra loro i cittadini dei vari Paesi dell’Unione.