Fine sanzioni Iran

Raramente assistiamo a un unanime coro di giubilo per un successo diplomatico. Uno di questi rari casi lo abbiamo visto l’estate scorsa, con la riapertura delle relazioni diplomatiche fra Usa e Cuba. Il secondo caso è quello di sabato scorso: la fine delle sanzioni all’Iran di Usa e Ue.

A giudicare dai termini dell’accordo sembrerebbe di trovarsi di fronte a un successo su tutta la linea, per di più celebrato da un’italiana (Federica Mogherini) alla guida della politica estera europea. La Repubblica Islamica rinuncia a gran parte del suo programma nucleare per non destare il sospetto di volere la bomba atomica, il mercato iraniano si riapre, i riformatori guidati da Hassan Rouhani possono cantare vittoria e trasformare una repubblica islamica in una democrazia liberale. E la pace torna nel Medio Oriente. O no?

Per evitare facili entusiasmi, occorre, ricordare a quali condizioni è stato siglato l’accordo sul nucleare iraniano, di cui abbiamo già parlato di recente su queste pagine e su cui è bene tener presente due cose: le clausole non prevedono affatto la fine del programma atomico iraniano, ma solo il suo rallentamento (per 10 o 15 anni); il lavoro duro, quello di verifica, inizia solo ora e sarà molto difficile controllare quanto l’Iran intenderà implementare realmente le misure che ha accettato.

In prospettiva, a cedere sono stati i negoziatori americani ed europei, non quelli iraniani: in dieci anni di tavolo sul programma nucleare della Repubblica Islamica, la condizione principale è sempre stata quella della fine (verificabile) del programma di arricchimento dell’uranio, possibile prodromo di una bomba a fissione. Ed è questa condizione ad essere stata rimossa, prima di giungere alla firma di Vienna.

Di fronte a questo accordo, tutt’altro che solido, sono state rimosse le sanzioni europee e sono stati scongelati i conti iraniani. Gli effetti non tarderanno a farsi sentire e saranno sicuramente positivi. Soprattutto per l’Iran. La Banca nazionale di Teheran calcola che torneranno nelle casse iraniane 30 miliardi di dollari finora congelati. Secondo il Dipartimento del Tesoro degli Usa, si tratta di ben 50 miliardi. Secondo i calcoli del governo iraniano, inoltre, la fine delle restrizioni sul commercio permetterà all’economia di risparmiare circa 15 miliardi di dollari all’anno, perché le sanzioni aggiungevano un costo supplementare all’import-export pari al 15% del valore scambiato. E si prevede che la fine delle sanzioni sul mercato energetico permetterà un guadagno netto di 10 miliardi di dollari in più nel 2016. Il Fondo Monetario Internazionale stima che il Pil iraniano crescerà del 5% (rispetto alla stagnazione attuale) nel 2016-17.

Dall’accordo guadagniamo anche noi, non solo perché molti più imprenditori pubblici e privati potranno investire in Iran (di cui l'Italia è il secondo partner commerciale in ambito Ue), ma anche perché la fine delle sanzioni sul petrolio, con tutta probabilità, abbasserà ulteriormente i prezzi al barile, già ai loro minimi storici. Questo perché l’Iran potrà esportare di più e offrire sconti per attrarre nuovi clienti o riacquisire i vecchi.

Se però, da un punto di vista economico, ci guadagniamo tutti, da un punto di vista politico lo scenario appare molto più dubbio. Prima di tutto non è affatto detto che, sul fronte interno, i riformatori possano trionfare sui conservatori e trasformare l’Iran in senso democratico. Anche perché i riformatori potrebbero anche… non esistere. Un sintomo che parrebbe confermare questo sospetto è che sotto Rouhani è stato battuto il record di esecuzioni capitali. Ed è un trend costante, già ben visibile nel 2014 e nel 2015: con il nuovo corso, il regime ammazza di più. Rouhani non è un uomo estraneo al sistema creato dall’ayatollah Khomeini, ma ne è necessariamente parte integrante: tutti i candidati sono accuratamente selezionati dal Consiglio dei Guardiani prima di presentarsi alle elezioni. Ciò vale per i singoli parlamentari, a maggior ragione un candidato presidente è un uomo fidatissimo. Quindi fa parte della stessa cerchia che ha finora mantenuto il potere, in certi periodi col pugno di ferro.

Se i cambiamenti politici interni all’Iran interessano poco la comunità internazionale, gli sviluppi internazionali sono al centro dell’attenzione. Fino a tre anni fa il regime di Teheran era considerato il principale sponsor del terrorismo nel Medio Oriente, Bush jr. lo aveva inserito nell’Asse del Male, ma, per uno dei soliti paradossi della storia, l’Iran è oggi visto come attore responsabile e stabilizzatore della regione. Non perché sia cambiata la sua politica estera, ma perché nell’area è comparso l’Isis, unico gruppo terrorista sunnita che è riuscito a costruire un Califfato.

Eppure la crescita dell’Iran non è affatto un fattore di stabilizzazione: mai la tensione fra Iran e Arabia Saudita ha fatto temere come in queste settimane lo scoppio di una guerra vera e propria. Guerre per procura, fra i due regimi capofila delle due anime dell’Islam, sono già in corso nello Yemen e soprattutto in Siria. L’Iran non fa mistero di mandare uomini e materiale bellico al regime di Assad. Hezbollah, ora impegnato più in Siria che in Libano, è ancora (per auto-dichiarazione) il braccio guerrigliero di Teheran. L’esercito regolare in Iraq si appoggia alle milizie addestrate e armate dall’Iran per combattere contro l’Isis (e contro la popolazione sunnita).

La politica di Teheran mira a consolidare la sua presa su tutto il Medio Oriente. E il nuovo flusso di denaro nelle casse iraniane può ora essere impiegato per finanziare questo programma all’estero. Israele si trova ai margini del conflitto in corso, per ora ne è stato risparmiato. Per quanto tempo lo sarà ancora? La possibilità che l’Iran si doti dell’atomica e, nel frattempo, si rafforzi nella regione è vista dal governo Netanyahu come il peggiore degli scenari possibili, peggio ancora di un’eventuale vittoria dell’Isis. La reazione del governo di Gerusalemme a questi sviluppi può essere del tutto imprevedibile.

Non si può dire che gli Stati Uniti accettino l’accordo ad occhi chiusi, proprio per questi motivi. La rimozione delle sanzioni riguarda solo quelle applicate ad aziende e individui stranieri, non a quelli degli Usa. E, una volta rimosse le misure restrittive economiche, non solo restano quelle in campo militare, ma ne vengono introdotte di nuove. Perché risale a domenica l’annuncio di nuove sanzioni per le personalità iraniane legate al programma missilistico. Il programma missilistico non può essere letto disgiuntamente a quello nucleare: senza la possibilità di testate nucleari, quei missili a medio raggio (gli Shehab 3) sarebbero perfettamente inutili.

È dunque difficile individuare la logica con cui gli Usa hanno annunciato la fine di un regime di sanzioni, introducendone di nuove e mantenendo gran parte delle vecchie. Se non che gli Usa, contrariamente all’Ue, non si fidano affatto dell’Iran. E forse non hanno tutti i torti, considerando che, nonostante lo scambio di prigionieri (avvenuto in concomitanza con la fine delle sanzioni: 4 americani contro 7 iraniani), l’Iran si sta comportando da nazione nemica. Dieci marinai sono stati catturati e poi rilasciati dopo una notte di prigionia, proprio mentre Obama pronunciava il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione. E solo due settimane prima, le Guardie Rivoluzionarie hanno sparato razzi molto vicino alla portaerei Truman, in navigazione nel Golfo. Fidarsi è bene, ma…