Se in economia la chiusura, legata a una paura del diverso e del declino che la crisi economica genera in chi teme di perdere la propria posizione dominante, si traduce in un rifiuto del libero mercato, in politica può diventare populismo e generale isolazionismo.

Colonna gennaio chiocciola

Il canto delle sirene. Ecco cos’è il protezionismo secondo Steven Ciobo, ministro australiano del Commercio. Difficile resistergli, soprattutto quando è intonato con parole facili e orecchiabili. Proprio come quelle di Donald Trump che, durante la campagna elettorale, ha ripetuto: “Lo Stato-nazione resta il vero fondamento della felicità e dell’armonia”, con buona pace della globalizzazione, del libero mercato e degli entusiasmi dei decenni trascorsi.

Eppure, ha spiegato Jolanda Jetten, professoressa di Psicologia Sociale alla University of Queensland, il protezionismo non suona sempre bene. Anzi. Nonostante i sostenitori della lotta al libero mercato offrano spesso ragioni economiche per spiegare la propria posizione, evidenziando la scarsità di risorse e l’esigenza di difenderle da investitori stranieri e lavoratori immigrati, spesso a motivarli sono ragioni non razionali, ma psicologiche e sociali. Profonde e poco scontate.

“È facile supporre che le persone più attratte dal protezionismo siano le più vulnerabili da un punto di vista economico – ha scritto Jetten su The Conversation – come i più poveri, i disoccupati, chi ha un basso livello di educazione o chi è stato duramente colpito dalla recessione. Data la posizione precaria, si tratta di individui più timorosi di perdere nella competizione con chi viene da fuori”. Ma questa supposizione, continua, è fallace. Basta infatti guardare i numeri e considerare due recenti esempi: la Brexit e l’elezione di Trump. Nel primo caso il 59% degli elettori del Leave proviene dalla classe media. Negli Stati Uniti, invece, un ampio sondaggio firmato da Gallup e basato su 87mila interviste realizzate su tutto il territorio nazionale ha mostrato come non ci sia un nesso tra la debolezza economica e l’appeal di The Donald – connessione che molti osservatori, invece, avevano dato per scontata. Gli elettori di Trump, inoltre, non hanno in media stipendi o redditi più bassi degli altri e non soffrirebbero in misura maggiore la disoccupazione. Al contrario, sono spesso bianchi e benestanti.

Secondo Jetten oggi è la prosperità economica ad essere associata al protezionismo, e non il contrario. Ed è spesso accompagnata da un più profondo sentimento anti-immigrazione e dalla tendenza ad esprimere un orientamento di voto definibile come populista. La ragione? La docente la trova nella psicologia dei privilegiati: quella tendenza per cui proprio chi sta bene vive una situazione di ansia economica. I più facoltosi si sentirebbero minacciati e impoveriti, provando risentimento e insoddisfazione, quando le misure di austerità generali li riguardano direttamente. Non solo. Quando i benestanti sentono di non ottenere quello che meritano e che spetta loro – perché, magari, lo hanno già conseguito in passato – temono più degli altri il declino del proprio status sociale. Allo stesso modo avvertono un senso di profondo timore e frustrazione nel momento in cui il loro benessere non cresce più come prima. “Il loro sostegno al protezionismo – conclude Jetten – diventa così più facile da capire”.

Tanto che Zack Beauchamp, editorialista di Vox, commentando la situazione delle democrazie occidentali e l’atteggiamento di chiusura di leader e candidati di diversi Paesi, ha parlato di "white riot", rivolta dei bianchi. Ma è davvero in corso una sommossa dei ricchi? Intanto non sarebbe una assoluta novità. Secondo Roger Petersen del MIT, per esempio, il risentimento ha già giocato un ruolo chiave nelle scelte politiche del passato. La sensazione di ingiustizia subita che una parte privilegiata della società prova emerge ogni volta che un po’ di potere scivola nelle mani di chi prima non lo aveva. La possibilità stessa di veder cambiare, in peggio, il proprio status sociale è percepita come un’ingiustizia, perché i membri del gruppo dominante credono di meritare di mantenere in eterno il proprio ruolo, per il solo fatto di averlo conquistato una volta. Un atteggiamento difensivo, soprattutto in campo economico, appare allora come una conseguenza naturale di un processo psicologico più profondo.

Non solo. L’ansia dei benestanti è spesso correlata al razzismo e ad una sorta di rifiuto dello straniero. Il dato emerge dal paper “Economic Insecurity, Prejudicial Stereotypes and Public Opinion on Immigration”, pubblicato nel 2000 e realizzato da Peter Burns del Trinity College, insieme a James Gimpel della University of Maryland. I due studiosi hanno infatti analizzato i sondaggi politici condotti negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta e hanno verificato come i periodi più difficili da un punto di vista economico siano spesso correlati a un maggiore razzismo. “L’effetto delle difficoltà economiche – hanno scritto – consiste nell’attivare pregiudizi latenti”.

Come l’atavico nativismo, indicato da Tyler Cowen della George Mason University come contenuto base del protezionismo. “Nonostante tutti i suoi successi, la tendenza intellettuale oggi prevalente consiste nel chiedere scusa per il libero mercato – ha scritto –. In realtà molte persone, sia negli Stati Uniti sia fuori, sono ingiustificatamente sospettose verso le relazioni economiche con i Paesi stranieri. Ciò dipende dalla natura umana, vale a dire dalla nostra tendenza a dividere gli individui tra coloro che sono dentro o fuori dal gruppo, e ad osannare gli uni e demonizzare gli altri”. Il nativismo in politica corrisponderebbe quindi all’idea per cui gli abitanti originari di un Paese dovrebbero usufruire di uno status più favorevole, anche da un punto di vista economico, rispetto agli altri, ai nuovi arrivati. I quali, di conseguenza, verrebbero indicati come usurpatori, gente da cacciare via, con cui non instaurare alcun tipo di relazione.

E se alcuni hanno criticato l’ipotesi di Cowen, ritenuta non sufficiente per spiegare da sola un pensiero articolato come quello economico, c’è chi crede nel potere dei bias e nell’impatto che hanno sulle scelte di politica economica di un Paese. Si tratta di Bryan Caplan, docente sempre presso la George Mason University, e autore di “Il mito dell’elettore razionale” (Princeton University Press, 2008). Secondo Caplan gli elettori ispirerebbero scelte totalmente sbagliate e nocive negli eletti, soprattutto nel campo della politica economica. Lo fanno perché scelgono candidati con i quali condividono gli stessi pregiudizi e che, a loro volta, prendono decisioni fallaci fondate proprio su quegli errori cognitivi.

Quattro, soprattutto, sarebbero i bias più diffusi, tutti in grado di favorire posizioni di chiusura, contrarie al libero mercato. Il primo è il pregiudizio anti-stranieri, alla luce del quale gli individui considerano il proprio Paese di origine in competizione con gli altri, arrivando così a temere tanto i lavoratori immigrati quanto gli investitori stranieri - considerati entrambi alla stregua di usurpatori e ladri di risorse. Il secondo è un vero e proprio bias anti-mercato, per cui prevale la sfiducia nei confronti delle regole del libero mercato e non si riconoscono i benefici dell’interazione con gli altri Paesi. Il terzo errore cognitivo consiste nella tendenza a legare la crescita economica alla creazione di lavoro. Tuttavia, ciò non è necessariamente vero, perché non conta solo l’esistenza del lavoro in sé, ma (molto di più) la sua produttività. Infine, il quarto è il pregiudizio pessimista, secondo cui le condizioni della società sono considerate in inesorabile declino, come se l’economia dovesse andare per forza di male in peggio, senza una motivazione specifica.

La conseguenza dei quattro bias? La chiusura. Che, se in economia si traduce in protezionismo, in politica può diventare populismo e generale isolazionismo.
Insomma: il protezionismo sarà pure il canto delle sirene. Eppure, può suonare parecchio stonato.