Il voto per Trump e quello per la Brexit sono stati spesso descritti come una rivincita della classe media dei paesi sviluppati nei confronti della globalizzazione, che ne avrebbe eroso i redditi. Ma è proprio così? I dati sulla disuguaglianza globale raccontano una realtà non del tutto coincidente con questa vulgata.

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Il riflesso quasi pavloviano con cui gran parte del dibattito pubblico reagisce al tema della disuguaglianza di reddito è - a pensarci bene - dovuto al fatto di limitare l’analisi entro i confini di un solo Paese. Ciò è abbastanza comprensibile in un mondo in cui lo Stato-Nazione è molto importante nel determinare il livello di reddito medio dei propri cittadini e dove il dibattito politico è in gran parte organizzato a livello di singolo Paese. Tuttavia, nell'era della globalizzazione, l’analisi delle disparità reddituali è limitata.

Lo stesso dibattito pubblico, dopo il voto per la Brexit in Uk e la vittoria di Donald Trump alle presidenziali degli Stati Uniti, è focalizzato sul tema del neo-protezionismo, spesso descritto come un fenomeno di rigetto dopo l’ondata neoliberista del libero commercio mondiale, che avrebbe - secondo la vulgata - causato un abbattimento del reddito delle classi medie dei Paesi più ricchi, a vantaggio delle classi medie emergenti di Cina e altri Paesi a forte crescita negli ultimi decenni. Per fare chiarezza e confutare o confermare tale tesi è perciò necessario concentrarsi sulle misure globali di distribuzione del reddito, ben consci della limitatezza dei dati disponibili, e delle difficoltà metodologiche connesse alla misurazione del fenomeno.

Quando si parla di disuguaglianza che trascende i confini nazionali, possono essere considerati tre distinti concetti, ognuno con la sua metrica.

Il primo concetto di disuguaglianza è focalizzato sulla disparità tra le nazioni del mondo. Esso è basato sul PIL nazionale o la media dei redditi ottenuti dalle indagini sulle famiglie di tutti i Paesi del mondo, senza ponderare per la popolazione. In questo caso, Cina e Lussemburgo hanno la stessa importanza, poiché ogni Paese conta allo stesso modo.

Il secondo concetto di disuguaglianza prende, invece, in considerazione il fatto che le diverse economie hanno taglie differenti: la Cina e il Lussemburgo (o qualsiasi altro Paese) entrano nel calcolo di questo indice corretto ponderate per le loro popolazioni. È necessario, tuttavia, ricordare che in entrambi i casi, il calcolo tiene considerazione non i redditi reali delle persone, ma quelli medi.

Il terzo concetto di disuguaglianza è invece la misura più corretta della disuguaglianza globale. A differenza delle prime due, questa metrica è basata sui redditi personali: ogni persona, indipendentemente dal proprio Paese, entra nel calcolo con il suo reddito effettivo. Si è perciò interessati alla distribuzione del reddito globale reale.

La difficoltà principale di tale approccio deriva dalla necessità di accedere a inchieste nazionali con i dati sui redditi individuali e di consumo. Reddito e consumo devono essere misurati utilizzando la stessa metodologia e le stesse definizioni. Questo requisito sfugge a molti Paesi, per lo più africani, dove le indagini sulle famiglie non sono condotte regolarmente e dove le metodologie cambiano bruscamente da un'indagine all'altra, rendendo così il confronto nel tempo molto difficile.

Uno dei pionieri di tali studi sulla disuguaglianza globale è un economista della World Bank, Branko Milanovic. Utilizzando le fonti di dati migliori disponibili a livello globale, che coprono la maggior parte dei Paesi del mondo, Milanovic e il suo team hanno mostrato i trend recenti nella disuguaglianza mondiale del reddito, gettando nuova luce su chi siano i vincitori e i vinti della globalizzazione. I risultati, come si vedrà, sono abbastanza incoraggianti, lontani dal catastrofismo abituale che accompagna le analisi correnti in tema di concentrazione del reddito in mano ai più ricchi, contrapposti a una massa di poveri globali, e ad una classe media in ritirata nei Paesi più economicamente sviluppati. Per convincersene basta riassumere in sintesi le evidenze empiriche del suo lavoro.

Figura 1 - Trend di diverse misure di disuguaglianza globale

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La figura 1, tratta da un recente studio, mostra i movimenti dei tre tipi di misura di disuguaglianza come sopra definiti, a partire dalla seconda guerra mondiale. La disuguaglianza, misurata secondo il primo concetto, è rimasta stabile dal 1960 al 1980. Ciò significa che non vi è stata alcuna crescita sistematicamente più veloce o più lenta dei Paesi poveri o ricchi. Il divario tra Paesi poveri e ricchi è rimasto perciò, nel periodo considerato, pressoché immutato.

La divergenza ha iniziato a manifestarsi solo all’inizio della globalizzazione, intorno al 1980, e ha continuato fino alla fine del secolo scorso. Questi due decenni sono stati pessimi, per quanto riguarda la convergenza della crescita dei Paesi più svantaggiati: i Paesi “ricchi” sono cresciuti, in media, più velocemente di quelli “poveri”. Tuttavia Cina e India, i due Paesi più popolosi del mondo e che più sono cresciuti nel periodo in questione, come già ricordato pesano come il Lussemburgo o Malta, secondo questa definizione.

Considerando la seconda metrica di disuguaglianza, che tiene conto del peso relativo delle popolazioni, si può notare come l’indice di Gini corretto è diminuito in modo vigoroso dal 1990. Misurando la dispersione del reddito in questo modo, il mondo è sicuramente diventato un posto migliore in cui vivere, durante la globalizzazione.

Ciò è dovuto, in gran parte, alla spettacolare crescita della Cina, che, iniziando da un bassissimo livello di reddito nel 1980, è cresciuta molto rapidamente durante gli ultimi tre decenni, convergendo rispetto ai Paesi a reddito più elevato. A sostegno di questo trend, recentemente, è arrivata anche l’India, anch’essa convergente, seppure a ritmi più blandi di quelli cinesi.

La disuguaglianza misurata secondo il terzo criterio, quello globale, per i succitati motivi dovuti alla mancanza di fonti primarie di dati coerenti, può essere calcolata solo dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso. La figura 1 mostra che la disuguaglianza, secondo quest’ultima metrica, è superiore alle due precedenti. Ciò è vero per definizione, poiché gli individui entrano nei calcoli con i loro redditi corretti per la parità del potere di acquisto, in modo da correggere per le unità monetarie nominali, che non catturano il potere di acquisto reale globale del reddito personale.

In effetti, se non dovessimo registrare le differenze del livello dei prezzi, e usare dollari nominali, la disuguaglianza globale sarebbe ancora più alta, perché il livello dei prezzi tende a essere più basso nei Paesi più poveri. Se si confrontasse il trend dell’indice di Gini globale, si noterebbe un fatto storicamente importante: per la prima volta dalla rivoluzione industriale, secondo le migliori stime disponibili, vi è stato un calo della disuguaglianza globale. Tra il 2002 e il 2008, a livello dell’indice globale è diminuita di 1.4 punti.

La ragione principale resta la stessa: la rapida crescita del reddito medio in Paesi molto popolosi, in particolare Cina e India. La loro crescita è stata simultanea all'aumento delle disuguaglianze intra-nazionali in molti Paesi. Dire che sia stato la causa, o la sola causa, dimentica il ruolo fondamentale dell’innovazione, del progresso tecnologico nei Paesi sviluppati. Comunque la si veda, la convergenza di reddito pro-capite dei Paesi poveri e popolosi è un fattore di compensazione di queste pressioni al rialzo della disuguaglianza nei Paesi sviluppati. Fattore così forte che ha anche permesso di diminuire la disuguaglianza a livello globale.

Ma cosa cattura un indice come quello di Gini, vicino all’incirca a 70, che è il valore di disuguaglianza globale riportato dalla figura? Un modo semplice di interpretarlo è quello di confrontare la “fetta” della popolazione mondiale, classificata dal più povero al più ricco, necessaria per arrivare al primo quinto cumulato del reddito globale. Tre quarti della popolazione sono necessari per raggiungere il primo quinto del totale reddito, ma solo l'1.7% della popolazione in cima alla scala del reddito basta per raggiungere l'ultimo quinto.

Inoltre, va tenuto a mente che l’indice di Gini non è paretiano, non tiene conto di un eventuale aumento di benessere anche di una sola persona, ma non a spese degli altri. Si potrebbe, infatti, eccepire che in questo caso non esiste alcun perdente, sebbene la distribuzione relativa del reddito avvantaggi o svantaggi qualcuno. Armati di queste doverose critiche metodologiche, è necessario che l’indicatore sia integrato da informazioni più dettagliate sulla crescita assoluta dei redditi nel periodo in considerazione.

Dunque, chi ha vinto e chi ha perso dopo il processo di globalizzazione sperimentato negli ultimi decenni? In generale, possiamo dire che i grandi vincitori sono due gruppi di persone. Innanzitutto l'emergente classe media globale, che comprende più di un terzo della popolazione mondiale, laddove si sono concentrati gli aumenti più significativi del reddito pro-capite: Cina e, in misura minore, India. Gli incrementi maggiori si sono, infatti, registrati intorno alla mediana, tra il cinquantesimo e il sessantesimo percentile del reddito globale, dove sono collocati circa 200 milioni di cinesi, 90 milioni di indiani e circa 30 milioni di persone ciascuno per Indonesia, Brasile ed Egitto.

Il secondo gruppo di vincitori si trova nella parte superiore della distribuzione del reddito all’interno dei Paesi più sviluppati economicamente, il famoso “top 1%”, che tanto fa notizia e scalpore, avvantaggiato dalla apertura dei mercati dei capitali e – non va dimenticato – dal progresso tecnologico. Costoro hanno sperimentato un aumento del reddito reale di oltre il 60 per cento in questi due decenni. Inoltre, la vera sorpresa si trova nella parte bassa della distribuzione del reddito globale, nel terzo inferiore per l’esattezza. Gli individui in questo gruppo hanno guadagnato significativamente, con redditi reali in aumento tra il 40% e il 70% per cento.

L'unica eccezione resta, perciò, il più povero 5 per cento della popolazione mondiale, il cui reddito reale è rimasto identico. L’aumento del reddito in fondo alla piramide globale ha permesso di abbattere la proporzione di coloro che la Banca Mondiale chiama i poveri assoluti, persone il cui reddito pro-capite è inferiore a 1.25 $ al giorno, a parità di potere di acquisto. Oggi rappresentano il 23% della popolazione mondiale, contro il 44% di venti anni fa.

Cosa dire, dunque, dei supposti perdenti, “trumpisti” o “brexiteers” di sorta, che con la loro rabbia avrebbero spinto la nuova ondata populista anti globalizzazione e neo-protezionista? Ebbene, a livello globale, li si può definire come non-vincenti, poiché il loro reddito reale è rimasto pressoché intatto negli ultimi decenni, così come la loro posizione relativa nella distribuzione del reddito globale. Invece, i veri perdenti sono le classi medie dei Paesi africani, dei Paesi ex-comunisti e, in misura minore, di alcuni Paesi dell’America Latina. Nel 1988, un africano con il reddito mediano del continente aveva un reddito pari a due terzi del globale mediano. Nel 2008, tale percentuale era scesa a meno della metà. La posizione di una persona di medio reddito nei Paesi post-comunisti è scivolata dal settantacinquesimo percentile globale al settantatreesimo.

Come si nota, dunque, guardare le cose dalla giusta prospettiva serve soprattutto ad avere una chiara idea dei processi in atto in un mondo sempre più “piccolo”, soprattutto grazie a tecnologia e mercato globale. La nazione è certamente il punto di partenza di ogni analisi economica e sociale, ma dimenticare i trend globali può offuscare le analisi, a detrimento delle giuste leve di politica economica eventualmente da attivare. Tornare a un’era di chiusura aprioristica dei mercati potrà anche aiutare ad alleviare i lamenti dei supposti “perdenti”. Ma attenti a non spararsi da soli sulle ginocchia: i risultati potrebbero essere molto dolorosi.