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Il trentesimo anniversario degli accordi di Schengen segnerà anche la sua morte? La crisi dei migranti e gli attacchi terroristici hanno portato governi e popoli europei a metterne in discussione la legittimità e l'efficacia. Controlli alle frontiere nazionali sono già stati reintrodotti in Francia, Ungheria e Svezia; mentre anche l’Austria annuncia la sospensione del trattato, la popolarità del tema "sicurezza" continua ad aumentare.

Tuttavia, l'idea di reintrodurre i confini nazionali porta l'Europa in un vicolo cieco e può soltanto indebolirla, sia economicamente che politicamente. Prima che un tale cambiamento abbia luogo, è fondamentale valutare obiettivamente i benefici del trattato di Schengen.

Firmato da cinque Stati membri nel 1985, il trattato Schengen coinvolge oggi 26 paesi e consente a più di 400 milioni di europei di circolare liberamente: dalla Polonia al Portogallo, dalla Grecia all'Islanda o alla Norvegia. Questo spazio di libertà senza precedenti ha avuto due obiettivi principali: aumentare gli scambi fra le nazioni e le opportunità di tutti i cittadini europei.

L'eliminazione dei controlli alle frontiere promuove il commercio. In tal modo, aumenta anche la redditività dei settori in espansione situati nelle zone di frontiera. In secondo luogo, dal momento che gli accordi di Schengen rendono ogni cittadino europeo libero di lavorare in un altro paese, la gamma di opportunità individuali si amplia radicalmente, stimolando così l'attività economica e aumentando il livello di benessere dei lavoratori.

Da questo punto di vista, con buona pace dei suoi detrattori, l'area Schengen è stata un grande successo. Secondo Dane Davis (CRU Group, Londra) e Thomas Gift (Duke University), la migrazione dei cittadini europei nell'area Schengen ha un effetto immediato sugli scambi tra i loro paesi d'origine e il paese ospitante. Un aumento dell'1% dei flussi migratori tra due paesi dell'area Schengen incrementa il commercio di quasi lo 0,1%. In effetti, la migrazione e il pendolarismo transfrontaliero sono costantemente aumentati nel corso degli ultimi decenni.

Come mostrato da Esther Ademmer e il suo gruppo di ricerca (Kiel Institute for the World Economy), nel 1999 esistevano in Europa meno di 500 mila pendolari transfrontalieri, mentre oggi sono più di 780 mila. Inoltre, quasi il 60 per cento di questi provengono da Francia, Belgio e Germania. Dunque, i paesi che hanno creato lo spazio Schengen, e che oggi lo criticano maggiormente, ne sono anche i principali beneficiari. A parte le opportunità di business e di lavoro, la libera circolazione ha inoltre promosso l'integrazione culturale dei cittadini europei. Nel solo 2014, i cittadini europei hanno fatto più di 218 milioni di viaggi di una o più notti in un altro paese europeo. I risultati parlano da soli.

Schengen è un successo che va preservato e promosso, soprattutto nei periodi di bassa crescita nazionale. Pertanto, la questione di riprendere i controlli alle frontiere deve essere affrontata a livello europeo; in caso contrario, tutti i benefici economici andrebbero persi. A questo proposito, un ritorno alle frontiere nazionali avrebbe solo l'effetto di moltiplicare i costi di monitoraggio, senza migliorarne l'efficacia. Infatti, i flussi migratori derivanti dalla crisi mediorientale sono concentrati in alcune aree chiaramente individuate — i famosi hot spot — e la minaccia terroristica può essere contenuta assai più efficacemente migliorando la comunicazione tra le agenzie di intelligence, che non inseguendo un (illusorio) controllo "totale" dei confini nazionali.

Riportare il dibattito su un principio di razionalità richiede, quindi, di ripensare i problemi europei in una prospettiva continentale. Ed è urgente farlo ora, perché mettendo in questione lo spazio Schengen anche solo temporaneamente si minacciano inevitabilmente le fondamenta dell'Unione europea. Come ogni integrazione, l'integrazione europea pone la libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone come prerequisito e principio fondativo. In mancanza di libertà di movimento, la moneta unica perde il suo significato e il suo scopo, proprio come ogni futuro progetto di unione fiscale e politica.

Oggi, alla penultima fase della sua piena integrazione, l'Unione europea si trova ad affrontare una scelta che è politicamente difficile e tuttavia ovvia. Indebolire gli accordi di Schengen e spaccarsi, o rafforzare la cooperazione e perseguire la sua evoluzione logica ed economicamente auspicabile. Bisogna augurarsi che la ragione e il coraggio politico prevalgano sulla paura e sulla demagogia, perché, qualsiasi decisione venga presa, sarà poi difficile, se non impossibile, fare marcia indietro.
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Quest'articolo è uscito in francese (in una forma leggermente diversa) su "La tribune". Presto uscirà in altre lingue su altre testate europee.