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Sono quattro le linee di frattura lungo le quali, scrive Wolfgang Münchau sul Financial Times, rischia di collassare l’impalcatura che sostiene l’Unione Europea.

L’Euro - la bomba greca è stata temporaneamente disinnescata, ma non sono state rimosse le ragioni profonde che avevano permesso la sua deflagrazione -, il Brexit con le sue incognite sulle forze centrifughe che verrebbero attivate dal rafforzamento dell’Europa a due o più velocità, i nazionalismi di alcuni paesi dell’Est, Ungheria in testa, questione che incrocia violentemente la crisi del sistema di controllo delle frontiere europee.

Le iniziative “provvisorie” di sospensione di Schengen - oggi l’Austria, tempo fa era stata la Francia a inchiodare masse di rifugiati e di migranti sulla spiaggia di Ventimiglia - hanno l’obbiettivo di rimuovere nello spazio il problema, tendenzialmente verso Sud e verso Est, e di allontanare nel tempo una soluzione condivisa. Ma rischiano di creare una situazione de facto, lo spostamento dei confini dell’area Schengen, dalla quale sarebbe molto difficile tornare indietro de jure.

Come scriveva Leopoldo Papi su queste pagine, dietro la sopravvivenza o il superamento di Schengen si nasconde un problema cruciale, e innominabile: da una parte la sospensione, anche temporanea, del trattato innescherebbe processi prociclici tali da rendere potenzialmente impraticabile il ripristino dello status quo ante, dall’altra la condivisione del controllo delle frontiere non è una prospettiva che si riduce a un semplice slogan, dal momento che è una materia che riguarda direttamente l’essenza della sovranità territoriale: cederne un po’ ad altri non può che passare attraverso una ridefinizione profonda della natura dell’Unione Europea, dei suoi poteri e dei suoi organismi istituzionali.

Anche i paesi che dovrebbero essere più interessati a una condivisione del controllo delle frontiere esterne, come l’Italia, evitano accuratamente di andare al cuore del problema. Chiedere più risorse - o più flessibilità sui conti pubblici - per affrontare il problema dei rifugiati significa implicitamente accettare l’idea che di quel problema si devono occupare in via esclusiva gli Stati di frontiera, senza alcuna cessione di sovranità ad altre istituzioni sovranazionali. E’ comprensbile, sotto certi aspetti: in cambio di cosa alcuni paesi, ma non tutti per collocazione geografica, accetterebbero di far sedere, militari di altri paesi sulle loro motovedette e sui loro posti di frontiera?

Ma gli stati del Nord Europa non aspettano di sentire altro per passare al corollario successivo e conseguente: se gli Stati periferici non sanno farsi carico adeguatamente del flusso dei rifugiati, abbiamo tutto il diritto di spostare la frontiera dell’Europa un po’ più a Nord. Forse è presto per dire, con Münchau, che questo è il preludio a un’era di "disintegrazione europea". Ma avendo già sperimentato, in occasione della crisi finanziaria dell’Eurozona, la capacità e i tempi di reazione degli Stati europei quando vengono messi, in una situazione di stress, di fronte ai nodi irrisolti del processo di integrazione, non c’è davvero da essere ottimisti.