In un Occidente sempre più spaventato dalla globalizzazione, un’Europa ancora troppo frammentata negozia trattati commerciali con i suoi partner internazionali, che però rischiano di arenarsi per le eccessive timidezze e concessioni ai particolarismi degli Stati membri. Tra i mille litiganti, la Cina gode.

Marazzi Europa

Schiacciata fra la tradizionale e storica vocazione a promuovere il commercio internazionale e la pressione politica interna a molti Paesi membri per un rallentamento o inversione di marcia, l’UE si trova probabilmente nella fase più difficile della sua breve ma intensa vita. Non solo deve affrontare problemi di governance interna, in particolare nella zona euro, ma deve anche lavorare all’interno del nuovo paradigma che vede una politicizzazione dei negoziati commerciali mai sperimentata prima.

Cominciamo con il chiarire (ove fosse necessario) che l’UE ha competenza esclusiva per la conclusione di trattati internazionali su commercio e investimenti. È la Commissione a impostare e condurre i negoziati con Paesi terzi, agendo però su mandato del Consiglio dell’UE, ove siedono i rappresentanti degli Stati membri (che sono tutte democrazie). La Commissione deve quindi attenersi al mandato negoziale del Consiglio e ogni trattato negoziato viene infine approvato dal Consiglio e dal Parlamento Europeo. La leggenda, quindi, secondo cui non ci sarebbe controllo democratico sull’operato della Commissione si dimostra appunto tale, una leggenda. Al contrario, è proprio questo controllo “democratico” indiretto sia da parte dei cittadini che dei Paesi membri (attraverso il Consiglio e il Parlamento Europeo) che ha portato alla situazione di stallo attuale.

L’UE ha in corso più di venti negoziati per accordi di libero scambio, tra i quali il più importante è il TTIP con gli USA, che è un accordo di cosiddetta “nuova generazione”, molto dissimile dagli altri. Sono poi in corso di negoziazione accordi di libero scambio con il Mercosur, Malesia, Thailandia, Indonesia, Filippine, Giappone, Myanmar, India, Messico, ma anche con Egitto, Giordania, Marocco e Tunisia. C’è poi un accordo importante con il Canada, il CETA, anche questo di “nuova generazione”, che è stato firmato, ma sarà soggetto a una trafila umiliante di autorizzazioni da parte dei parlamenti nazionali, e in qualche caso anche regionali, invece che del solo Parlamento Europeo: su questo ci soffermeremo più avanti.

Ci sono infine due altri accordi in corso di negoziazione di cui si parla poco, ma che sono altrettanto importanti per le loro conseguenze. Il primo è l’accordo bilaterale tra UE e Cina sugli investimenti.
L’altro è il TISA, negoziato tra 23 Paesi aderenti al WTO, che riguarda invece il commercio di servizi, settore sempre più importante per l’economia europea.

Accanto a questi, ci sono altri dossier comunque collegati al ruolo della UE come attore principale della politica commerciale europea, tra cui quello, particolarmente spinoso, delle sanzioni alla Russia.

Va notato che sia i negoziati sul TTIP e sul CETA che l’accordo con il Giappone sono stati avviati sotto la presidenza Barroso, nel periodo 2010-2013. Non è un caso: nel mezzo di una crisi economica senza precedenti, la speranza era quella di riavviare la crescita europea attraverso un motore che finora ha sempre funzionato, vale a dire la liberalizzazione dei commerci e investimenti reciproci. Peraltro con partner commerciali “ricchi” e che seguono, in materia di tutela dei consumatori e qualità dei prodotti, regole molto simili a quelle UE.

Qual è lo stato di questi ed altri accordi, e cosa ci dobbiamo aspettare nel 2017?

Partiamo dal TTIP: fin dall’estate scorsa si sono moltiplicati i segnali che rendevano molto ardua una chiusura dell’accordo entro la fine del mandato Obama. Troppi i temi ancora aperti: dalla risoluzione delle controversie, con la UE in fondamentale disaccordo sull’adozione dell’ISDS (Investor-State Dispute Settlement), al problema delle indicazioni geografiche protette, fino alla normativa sugli OGM che la UE vuole mantenere inalterata. Sul TTIP ho già scritto in dettaglio nel numero di Strade di settembre e qundi mi limito a sottolineare come, essendo un accordo che punta alla convergenza negli standard normativi relativi a prodotti e servizi su entrambi i lati dell’Atlantico, esso richieda una buona dose di compromesso tra le rispettive posizioni.

La retorica trumpista su “America first”, tesa anche a mettere in cattiva luce le precedenti amministrazioni democratiche, colpevoli di aver ceduto troppo ai partner commerciali, non sarà senz’altro di aiuto quando saranno necessarie concessioni da parte USA, per esempio sulla questione delle indicazioni geografiche o sulla soluzione delle controversie. Dall’altro lato dell’Atlantico, le imminenti elezioni politiche in Olanda e soprattutto in Francia e Germania rendono difficile un progresso significativo nel 2017, data l’elevata attenzione mediatica in entrambi i Paesi e un’opinione pubblica, soprattutto in Francia, generalmente contraria anche perché abbastanza disinformata sui dettagli dell’accordo. È vero, la Commissione ha ricevuto un mandato negoziale (poi confermato con qualche modifica dal Parlamento europeo) che resta tale e quindi in teoria potrebbe procedere col pilota automatico, ma sembra difficile immaginare che possa farlo senza il sostegno o perlomeno il nulla osta di Francia e Germania. Una soluzione di compromesso, che però richiederebbe disponibilità da parte americana, è quella di limitarsi a concludere solo i capitoli già negoziati e quindi ridimensionare l’ambizione iniziale. L’interesse economico di base ci sarebbe - gli scambi tra UE e USA rappresentano oltre il 40% del commercio mondiale – ma quello politico? È tutto da vedere.

Il CETA è in una posizione migliore. È infatti un accordo molto favorevole alla UE, che ha ottenuto concessioni in molti settori, e perlomeno esiste in una versione definitiva. L’errore commesso dalla UE di cedere alle pressioni di alcuni Stati membri (anzi, addirittura di alcuni partiti in questi Stati membri!) e dichiarare l’accordo “misto”, con la demenziale conseguenza di dover elemosinare l’approvazione definitiva da parte di ben 38 (not one less) parlamenti nazionali e regionali, tuttavia, può ancora metterlo in pericolo. Il CETA avrà comunque applicazione provvisoria da fine gennaio. L’amministrazione canadese di Trudeau ha tutto l’interesse a mantenere la barra dritta, ma lo stesso interesse ce l’ha anche la UE, già accusata dal giovane premier d’oltreoceano, e a ragione, di tagliarsi un’altra gamba ove non riuscisse nemmeno a concludere accordi commerciali a causa di veti interni, Vallonia docet (“if the EU cannot trade, then what can it do?”).

L’accordo con il Giappone, ignorato perlopiù dai media, ma con risvolti potenzialmente importanti anche per le aziende europee, ha visto il diciassettesimo round negoziale concludersi a settembre. Forse, grazie alla minore pressione mediatica e alla minor politicizzazione rispetto al TTIP e al CETA, un accordo finale vedrà la luce nel 2017. Va anche tenuto conto del fatto che, venuto meno con ogni probabilità il TPP (la Transpacific Partnership) con gli USA, che il presidente Trump ha dichiarato di non voler portare a ratifica da parte del Congresso, il Giappone si trova nella necessità di concludere un trattato con l’altro importante partner commerciale (l’UE) in tempi brevi.

Ci sono poi gli accordi con i Paesi cosiddetti emergenti come l’India e quello con il Mercosur. Questi sembrano procedere estremamente a rilento (con il Mercosur si è iniziato più di 6 anni fa) ma probabilmente proseguiranno, nell’ambito della tradizionale politica europea di sostenere la crescita di questi Paesi. Il famoso “aiutiamoli a casa loro” tradotto in realtà.

Uno sguardo finale va dato a un accordo che, se concluso, potrebbe costituire il primo passo verso l’abbozzo di una politica industriale paneuropea: l’accordo bilaterale sugli investimenti con la Cina. Anche di questo ho scritto su Strade online, ma vale la pena riassumere la posta in gioco: (a) gli investimenti cinesi in Europa sono stati in forte crescita negli ultimi anni, (b) la Cina resta la terza destinazione a livello mondiale per gli investimenti, anche se solo una minima parte di quelli europei finisce nel Dragone, ma (c) in molti settori mancano condizioni di reciprocità tra UE e Cina, ovvero, alle imprese UE viene dato accesso a molti meno settori rispetto a quelli cui hanno avuto ed hanno accesso i cinesi.

Il “market access” reciproco sarà quindi l’argomento forte nei negoziati. Sembra una questione di poca rilevanza, ma non lo è, perché se ne tira dietro altre: per esempio se sia ancora giusto che ogni singolo Paese UE abbia la propria disciplina sulla “sicurezza economica nazionale” che identifica settori in cui gli investimenti stranieri sono soggetti ad autorizzazione speciale perché strategici e che spesso tratta anche altri Paesi UE come “stranieri”, oppure se non sia venuto il momento per la UE di creare un equivalente europeo dello CFIUS americano che valuti investimenti e soprattutto acquisizioni in settori strategici.

Lo status dei negoziati è abbastanza deludente e si può dire che la colpa sia di entrambe le parti. La Cina non ha alcun interesse a concedere ulteriori aperture in vari settori, visto che le sue aziende già non incontrano alcun ostacolo a investire in Europa, anche in settori che i cinesi considererebbero “sensitive”. La UE, dal canto suo, ha faticato non poco, prima dell’avvio dei negoziati, per acquisire una posizione comune, visto il diverso approccio dei Paesi membri: quelli del “Sud Europa” (e il Regno Unito) sarebbero fondamentalmente aperti anche ad investimenti nel settore delle infrastrutture e dell’energia, mentre quelli del centro-nord Europa preferiscono un approccio più cauto. A meno che non venga proposto un incentivo reale per la controparte cinese a concedere aperture in tutti i settori chiusi o limitati all’investimento europeo, sarà difficile andare avanti. Eppure, fatta eccezione per il TTIP, ad oggi non esiste forse trattato negoziato dalla UE in cui politica, economia e geopolitica si confondano di più e si rafforzino l’un l’altra ed in cui la coesione tra Paesi membri UE sia più vitale.

A questa congiuntura già di per sé complessa si aggiunge la possibile politica protezionista dell’amministrazione Trump. In realtà, bisognerà vedere quanto il nuovo presidente riuscirà ad attuare di ciò che ha promesso in campagna elettorale, anche perchè la paventata rinegoziazione di trattati come il NAFTA e addirittura di quelli del WTO, che reggono l’intera infrastruttura mondiale del commercio su cui fanno affidamento migliaia di aziende americane, richiederebbe l’intervento del Congresso, dove difficilmente Trump troverebbe una maggioranza, vista la posizione di gran parte dei repubblicani e dei democrats sul commercio internazionale. Resta il fatto, però, che questo presidente ripete da tempo molti degli slogan dei “no global”, una cosa senza precedenti, ed è quindi improbabile che cambi pelle all’improvviso ribadendo il ruolo globalizzatore e liberalizzatore degli USA. Questo scenario lascia quindi il resto del mondo a interrogarsi su quali Paesi riprenderanno la leadership nella difesa dell’esistente nonché dell’ulteriore apertura dei mercati.

Starà ai Paesi chiave dell’UE decidere se essa dovrà assumere questo ruolo o se dovrà seguire gli USA in questo nuovo avventurismo, con il rischio di lasciare la posizione alla Cina e quindi accelerare ancor più lo spostamento del baricentro economico del mondo e della ricchezza dall’Occidente all’Oriente.