Con un protezionista alla guida degli Stati Uniti, l’abbandono del multilateralismo e il ritorno ai trattati bilaterali potrebbero essere l’arca di Noè del commercio mondiale, in attesa che torni il bel tempo della globalizzazione e della fiducia.

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America first. Con queste due parole, e poco più, Donald Trump ha sintetizzato, durante la campagna elettorale che lo ha condotto alla Casa Bianca, la politica estera che dovrebbe caratterizzarne la presidenza. Dal famigerato muro al confine col Messico allo stop al Trans-Pacific Partnership (TPP) on first day in office (cioè come primo atto del suo mandato), tutto lascia pensare che sarà l’interesse nazionale, costi quel che costi, il barometro delle sue scelte.

America first, appunto. Ed è quantomeno curioso che uno slogan in esplicita contrapposizione alla globalizzazione e alla sua irreversibilità venga adottato (e risulti vincente) proprio nel Paese che, agli occhi di tutto il mondo, la globalizzazione l’ha “inventata” pochi decenni fa e ne ha tratto i maggiori benefici. Eppure, proprio questo paradosso può forse spiegare - più di ogni altra categoria del passato cui siamo abituati - il presente e il probabile prossimo futuro delle relazioni commerciali globali, proprio a partire da quelle che dipendono dagli USA.

Una cosa è certa: con Trump finisce il multilateralismo, cioè la prassi di (tentare di) allargare gli accordi internazionali al maggior numero di Stati possibile. La ragione è evidente: multilateralismo significa stabilità, concertazione, compromessi. Tutto il contrario di quanto The Donald ha sempre promesso di voler fare in politica estera, come ha chiarito una volta per tutte lo scorso aprile, durante un discorso al Center for National Interest, quando accusò Obama di convocare una conferenza stampa ogni volta che inviava o ritirava contingenti militari o che intendeva modificare un capitolo di un trattato commerciale, così risultando prevedibile e quindi poco efficace. Al contrario, aggiunse Trump, in politica estera bisogna essere “free and unpredictable”. Liberi e imprevedibili: solo così gli Stati Uniti torneranno a dominare lo scacchiere internazionale.

Per l’imprevedibilità, però, ci sarà tempo: il primo atto di politica internazionale della nuova presidenza è stato dichiarato e confermato in più occasioni, e dovrebbe essere un secco no al TPP. Dopo più di cinque anni di complessi negoziati, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Malesia, Vietnam, Singapore, Brunei, Messico, Perù e Cile avevano trovato un equilibrio che consentisse loro di regolare in modo uniforme le loro relazioni commerciali, riducendo migliaia di tariffe doganali e stabilendo nuovi standard sulla produzione e sulla vendita di un vasto numero di prodotti e servizi. Non solo: il trattato, escludendo la Cina, avrebbe enorme valore geopolitico, isolando il Dragone e costringendolo a scendere a patti con un gruppo di Paesi che, messi insieme, valgono il 40% del Pil mondiale.

Ma la strategia di Obama - isolare la Cina, per contrastarne l’espansione economica, rafforzando i rapporti col Giappone e con gli altri Paesi dell’area - non è quella di Trump, per il quale il TPP è una “catastrofe all’ennesima potenza”, che indurrebbe le aziende americane a delocalizzare la produzione, con ripercussioni negative sull’occupazione in suolo americano. Shinzo Abe, a seguito di queste dichiarazioni, ha sollevato seri dubbi sull’utilità di un accordo che escluda gli States, e considerato che è necessaria la presenza di almeno sei Paesi firmatari che valgano l’85% del Pil per poter ratificare il trattato, il sospetto è che il TPP resterà lettera morta.

Poi c’è il NAFTA, che copre le relazioni commerciali tra USA, Canada e Messico, e che, dicono in tanti, dovrebbe essere aggiornato, perché dopo quasi 20 anni non è in grado di dare certezze a un commercio sempre più digitale e in continua evoluzione. Trump ne ha fatto un bersaglio forse ancor più grande del TPP, indicandolo come la prima fonte della disoccupazione della middle class americana. Allo stesso tempo, i rapporti commerciali sorti nell’ambito del NAFTA riguardano 14 milioni di americani, ed è quindi difficile, realisticamente, pensare che Trump possa davvero uscirne, anche - e anzi proprio perché - sarebbe assai dubbio che ciò farebbe gli interessi del popolo americano.

Al di fuori dei trattati esistenti, e che Trump vorrebbe smontare, c’è però chi sta provando a sfruttare a proprio vantaggio la preferenza del neopresidente per gli accordi bilaterali. Dal presidente brasiliano Michel Temer a Richard Verma, ambasciatore statunitense a Nuova Delhi, al primo ministro vietnamita Nguyen Xuan Phuc, non c’è giorno che passi senza la notizia di una telefonata di un qualche leader politico a The Donald. Per ragioni diplomatiche, certo, ma non solo: l’impressione è che ci sia chi, nel mondo, ha percepito prima degli altri la fine del multilateralismo, e sta provando ad assicurarsi i benefici di relazioni bilaterali proficue con quella che, Trump o non Trump, resta la prima potenza economica mondiale.

L’insofferenza del neopresidente verso il multilateralismo non si ferma agli accordi commerciali. In più di un’occasione, Trump ha dichiarato di voler modificare le regole della NATO - ritenuta “un’organizzazione obsoleta grazie a cui i membri vengono difesi a spese degli USA” - e in particolare l’obbligo di intervenire in difesa di membri NATO aggrediti da Paesi esterni, cioè un vero e proprio pilastro della politica di difesa dell’Occidente. E altrettanto netto è il suo giudizio sull’ONU, definito “un club dove la gente si ritrova a chiacchierare e a divertirsi” dopo l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza, avvenuta con l’astensione degli USA, della risoluzione che chiede al governo di Israele di interrompere ogni attività nei cosiddetti “territori occupati”.

Anche i rapporti tra Cina e Stati Uniti, nei prossimi anni, potrebbero mutare. La politica di isolamento tipica dell’amministrazione Obama è stata già rinnegata dal rifiuto del TPP, ma Trump ha lasciato intendere di voler mettere in dubbio perfino la politica “Una Cina, due sistemi”. Da decenni, infatti, le relazioni sino-americane si basano sul mancato riconoscimento della legittimità politica autonoma di Hong Kong, Macao e Taiwan. Qualche settimana fa, una telefonata tra i vertici di Taiwan e Trump ha perciò scosso dalle fondamenta il rapporto sino-americano, ma solo poche ore dopo dagli uffici della Trump Tower è trapelata la notizia di una probabile proposta di accordo bilaterale con il Dragone, che taglierebbe i ponti del commercio globale all’Europa, da una parte, e agli altri Paesi che affacciano sul Pacifico, dall’altra.

Le multinazionali americane hanno conquistato negli anni posizioni azionarie importanti in diversi settori dell’economia cinese, soprattutto nell’high tech, e l’export americano in Cina, negli ultimi 10 anni, è cresciuto più di quello cinese in America. Nel frattempo il costo della manifattura cinese è molto aumentato, e questo, agli occhi di Trump, potrebbe essere un buon pretesto per imporre alla Cina precisi standard di reciprocità su accesso al mercato e proprietà intellettuale. Sarà più difficile per la nuova amministrazione americana, invece, agire su dazi e tariffe, specialmente se Trump confermerà il naufragio del TPP, che viceversa avrebbe costituito una forte arma di ricatto.

E l’Unione Europea? Trump la considera “uno strumento della Germania per raggiungere i suoi scopi”. Non a caso, qualche settimana fa, Wilbur Ross, segretario al commercio internazionale del prossimo esecutivo americano, ha espresso giudizi molto lusinghieri nei confronti del Regno Unito di Theresa May, suggerendo un possibile prossimo accordo commerciale tra i due Paesi, dopo che l’amministrazione Obama lo aveva relegato all’ultimo posto della coda per stipulare un trattato commerciale con gli States, se avesse prevalso il Leave. The Donald ha più volte confermato la simpatia per la May, e il silenzio sul TTIP (oramai considerato su un binario morto dai suoi stessi promotori, dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico) conferma che gli Stati Uniti che verranno non saranno disposti a scendere a patti con le lungaggini e i veti di Bruxelles. A meno che non convenga a Washington, ovviamente.

America first”, dunque. Ma non necessariamente nel segno dell’isolazionismo o dell’autarchia. Il fil rouge degli scenari che si prospettano nei prossimi anni, inedito e spiazzante, è piuttosto il ritorno al bilateralismo come marchio distintivo del potere statunitense, annacquato - secondo Trump - dalla logica, burocratica e compromissoria, dei grandi accordi e delle grandi organizzazioni internazionali. In un contesto, come quello di oggi, dove la globalizzazione è sempre più unanimemente considerata il nemico da sconfiggere in quasi tutti i Paesi dell’Occidente e dove l’autarchia, realisticamente, non trova in essi alcuna opposizione elettorale, il ritorno ai trattati bilaterali potrebbe essere l’arca di Noè del commercio mondiale, in attesa che torni il bel tempo.