Dubai, Cina, Las Vegas, Macao riproducono architetture del passato, anche recente. Un viaggio tra le architetture-fotocopia, che sì, è vero, possono attirare i turisti, ma che rischiano di risultare soltanto cloni privi di contenuti.

lilli maggio sito

"(Adriano) edificò la villa di Tivoli in modo mirabile, e chiamò le sue parti coi nomi dei più celebri luoghi delle province, come Liceo, Accademia, Pritaneo, Canopo, Pecile, Tempe. E, per non tralasciare proprio nulla, fece imitare anche gli Inferi". Così scrive una fonte letteraria del IV secolo d. C. di uno degli impianti residenziali più celebri dell'antichità romana, per certi versi prototipo delle cosiddette "variazioni sul tema". Non certo imitazioni tout court. Al pari dell'Accademia e del Liceo fatti costruire da Cicerone nella sua residenza di Tuscolo. Oppure dei canali artificiali costruiti nei giardini e nelle ville ad imitazione del Canale dell'Eubea e del fiume d'Egitto.

Quell'uso di ispirarsi, sempre liberamente, a modelli celebri nelle architetture dell'antichità, rimane frequente nel corso della storia. Al punto di connotarsi come una vera e propria tradizione culturale, che dall'antichità raggiunge il contemporaneo, attraverso epoche differenti, gusti inconciliabili, tendenze contrapposte, latitudini lontanissime. Dacca, capitale del Bangladesh, fu progettata e costruita da Louis Kahn sul modello di Roma antica. Il complesso dell'Assemblea Nazionale rievoca gli antichi spazi di publica utilitas dei romani e nel primo progetto per il Parlamento è presente anche "un massiccio perimetrale da costruire intorno all'area del Campidoglio, una sorta di memoria del recinto pisano di Piazza dei Miracoli". Così la Casa Bianca di Washington, progettata alla fine del Settecento da James Hoban, avendo come riferimento le ville palladiane.

Esempi di quell'ammirazione verso un modello, nei confronti di alcuni suoi prototipi. Prodotti comunque di una rielaborazione certamente formale. Realizzazioni che in ogni caso si iscrivono di diritto in un dibattito antico, ma anche recente: quello del copyright in architettura. Dell'importanza della "paternità". Che Benedetto Croce nella sua Estetica iscriveva all'autore dell'atto immaginativo. Ma che Chipperfield, curatore dell'ultima Biennale di Architettura di Venezia, bandisce. Sostenendo che "l'architettura è un processo che coinvolge una pluralità di attori, dal committente all'inquilino che la trasforma e una molteplicità di operatori progettuali". L'architetto inglese, insomma, sembra aver avviato una battaglia contro l'architettura intesa come opera d'autore, ascrivibile ad un individuo. "La Biennale e l'architettura non sono come "X Factor". L'architettura non deve essere espressione di un'autobiografia, ma professione collettiva, utile alleanza: non ha bisogno di geni", secondo Chipperfield.

Un'affermazione che può risultare condivisibile, pensando ad alcune contorsioni progettuali contemporanee. Ma che presenta più che evidenti contrarietà, dal momento che il rischio è di trasformare l'universo architettonico in qualcosa di simile a ciò che è oggi Internet. Un universo nel quale non è episodico l'uso della copiatura, anche perché, in un contesto così fluido, ben poche possono essere le regole di copyright. Insomma, la possibilità che l'architettura possa trasformarsi in un confuso copia e incolla, nel quale la presunta circolazione di idee possa facilmente mutarsi in plagio, è tutt'altro che peregrina. D'altra parte proprio nell'esposizione veneziana della Biennale è stato dato spazio all'idea di copiare i vecchi edifici come esperienza di common ground. L'installazione del gruppo Fat (Architectural Deppelgangers Research Cluster, San Rocco, Ines Weizman) si apriva con una fotocopiatrice accompagnata dall'invito ai visitatori di fotocopiarsi una intera biblioteca. Così la "copia", che è il mezzo attraverso il quale l'architettura si è diffusa, è divenuta con il passare del tempo, con il progressivo svuotamento degli elementi fondanti originari, un "gemello malato". Una riproposizione stanca di linee, private dei suoi motivi ispiratori, dei suoi capisaldi fondanti.

In giro per il mondo di queste "scatole vuote", di questi mostri dell'architettura se ne trovano parecchi. Anzi, il loro numero è in continua crescita in Paesi nei quali le ingenti risorse finanziarie costituiscono il "bancomat" per creare, spesso dal nulla, la propria storia. Per costruire in tempi rapidi grandi strutture, qualche volta interi paesi, addirittura città. Rem Koolhaas, curatore della prossima Biennale di architettura di Venezia, l'ha definita, "un'ansietà culturale". La spasmodica ricerca di costruire spazi popolati da icone riprodotte. Così l'architettura clona suoi esemplari, di riconosciuta bellezza, di sicuro appeal, riproducendone in maniera meccanica le forme e, non di rado, copiandole. Così è accaduto nella provincia di Guangdong, in Cina, dove alla fine dell'aprile 2012 si è terminata la ricostruzione del villaggio alpino austriaco di Hallstatt. Con tanto di chiesa. Le villette sono state tutte vendute, in poco tempo. Insomma, un successo. È, in fondo, quel che è accaduto tante volte a Venezia, riprodotta a Las Vegas, replicata all'infinito da Macao al Brasile. Qualcosa di simile si è verificato per la basilica di San Pietro edificata in Costa d'Avorio, oppure per il Taj Mahal rifatto in Bangladesh.

Un altro esempio è la ricostruzione della Rotonda di Palladio voluta dal magnate palestinese Al Masri a Nablus, nei territori palestinesi, e uguale a quella di Vicenza. Al punto che si potrebbe pensare sia stata trasportata, come accaduto per la Santa Casa, da Gerusalemme a Loreto. Miniature rispetto a quel che accade a Dubai. Dove, forse entro il 2015, si completerà il complesso di Taj Arabia, l'Ottava Paccottiglia del mondo. Col nuovo Taj Mahal di Dubai che sarà affiancato dalla nuova Torre di Pisa, dalla nuova Tour Eiffel, dalla nuova Grande Muraglia e dalle nuove Piramidi. "Fotocopie" degli originali e, proprio per questo, opere che nella loro spettacolarità esibita non contemplano il fine culturale.

Il Taj Mahal originale di Agra, nell'India Settentrionale, è stato il modello per il Taj Mahal 2.0. Un'architettura "clonata" nelle forme. Poi per il resto è - evidentemente - tutta un'altra storia. Tempi di realizzazione e funzioni differenti. Per l'originale ci sono voluti vent'anni di lavori, per l'esemplare arabo, presumibilmente, un paio. Quello, la tomba dell'imperatore. Questo, albergo da 300 stanze, con tanto di casinò, ippodromi e spa. Quindi un grande business. Cento chilometri quadrati di marmi e fontane, cupole e giardini. Dubai, in questo mondo nel quale l'eclatante è la consuetudine, fa scuola. Gli emiri, scampati al disastro immobiliare del 2008, tornano ad investire petroldollari in opere che lascino il segno. Non interessano più i grattacieli da record, e neppure le grandi firme dell'architettura. Tutto è puntato sui monumenti "fotocopiati".

Quanto questo attivismo edilizio sia un problema anche per quel che riguarda l'ambiente, non è difficile da capire. Territori impermeabilizzati, stravolti nel loro aspetto originario. Ridisegnati. Con l'aggravante delle conseguenze prodotte sul clima.

Qualcuno ipotizza che alla radice di questo fenomeno, geograficamente esteso, in progressiva espansione, ci possa essere una sorta di sudditanza culturale nei confronti dell'Europa, della sua Storia stratificata. "Il Medio Oriente si sente forse inferiore all'Europa e per questo deve copiarne le forme", sostiene Moti Bodek, della Bezalel Academy di Gerusalemme. Secondo altri, colpevole di questo declino delle idee è il turismo. Nella speranza di attirare folle oceaniche da tutto il mondo si darebbe vita a delle duplicazioni degli originali. Quel che è certo è che le architetture più recenti del Golfo stanno tradendo le opere più coraggiose. Come le Palm Island di Dubai e la fabbrica Ferrari di Abu Dhabi, finite nei cataloghi delle Biennali. In alcuni casi anche quelle in corso. Come il Louvre di Abu Dhabi, progettato da Jean Nouvel, ispirandosi all'architettura araba più tradizionale, ma avendo come ambizione quello di essere un piccolo nuovo mondo unito nella sua diversità.

L'architettura è una scienza nella quale proporzioni e rapporti costituiscono elementi significativi ma non unici. Senza una osmosi tra passato e presente, senza riferimenti e anticipazioni, si tratterebbe solo di "involucri". Di spazi ritagliati. Di muti contenitori di persone e funzioni. Dovunque le costruzioni non riescono a farsi anche architetture, ad essere anche modelli culturali, ci si trova di fronte a un'opera svuotata di ogni contenuto. Quando poi ci si accontenta di una semplice "fotocopia", il risultato non può essere che modesto. Città, parti di esse, senz'anima. "Quello che vedo in quasi tutti i sistemi è l'incapacità di anticipare, smuovere e prendere iniziative sul futuro, 40 o 50 anni oltre, anche quando è evidente che la città cresceranno o si restringeranno rapidamente", afferma Koolhaas.

In fondo il problema è proprio questo: chi non inventa, copia. Così il rischio è che l'architettura, strumento per accrescere l'appeal turistico, finisca per non essere più in grado di progettare il futuro. E sarebbe un problema.