I talent show sono spettacoli di emozioni, non di talenti, dove a contare non è la perfezione della performance, ma l'esattezza dei personaggi e la corrispondenza dei sentimenti. Così il Primo Maggio, nel talent politico di San Giovanni, a trionfare è stato un istruttore del successo tv, che ha detto la cosa "giusta" – quella che il pubblico voleva sentire. Ma è quel pubblico, non quell'arruffapopolo il problema politico.

foto Palma grande

Ci sarà una ragione se dalla piazza televisiva del Primo Maggio - quella coattamente spontanea, giovane e movimentistica di San Giovanni con i suoi nani e le sue ballerine democratiche in prima fila, sopra e sotto il palco, a far bella mostra di sé e della propria indignazione - a uscire trionfatore è stato un personaggio da talent show, uno degli ex cattivi ragazzi riciclatisi bravi maestri nei corsi di apprendistato alla celebrità, un esperto navigatore di quel brodo di sentimenti primordiali - l'ambizione, la vanità, lo spirito di competizione, il desiderio di successo e la paura dell'insuccesso - che è oggi il canone più caratteristico del realismo televisivo e per certi versi pure di quello politico.

Si canta e si balla, certo, nei talent. Ma lo show che trattiene gli spettatori e trascina i concorrenti è quello psichico, e psicogena è la chimica del successo. I talent sono spettacoli di emozioni, non di talenti. Così anche i talent politici. Si parla, si discute, ci si candida alla celebrità rivendicando o dimostrando le proprie abilità – i titoli, la faccia, il curriculum...– ma a contare ai fini del successo è la capacità di attivare i conflitti e di evocare i demoni interiori della psicologia collettiva, di stabilire un contatto confidente e ruffiano con l'inconscio del popolo. Renzi, Grillo e Berlusconi sono i politici più "bravi", perché sono i più capaci, i più sensibili e spregiudicati in questo gioco.

Pelù al loro confronto è un mestierante mediocre, ma la razza è quella. Non è, per dire, Gherardo Colombo, che pure delle cazzate sul cripto-piduismo renziano, per la sua polemica sulla Bicamerale "figlia del ricatto", può considerarsi una sorta di committente ideologico e padre spirituale. Non è un intellettuale tormentato, un rivoluzionario frustrato o uno dei tanti professionisti dell'allarme democratico di cui abbondano le piazze di sinistra. È un uomo di tv, che sa fare spettacolo dello spettacolo, a The Voice come a Piazza San Giovanni, diventata anch'essa, quasi per statuto, una passerella di passerelle, una maratona oratoria dell'esibizionismo antagonista.

Sa spaccare, Pelù, salendo di scala e non solo di tono, anche a costo di arrampicarsi sui trampoli dell'oltraggio ribaldo e della falsità "scientifica". In uno show in cui a contare non è la perfezione della performance, ma l'esattezza dei personaggi e la corrispondenza dei sentimenti, Pelù ha fatto la cosa più giusta, dicendo la cosa più sbagliata, ha costruito una vera sintonia su di un falso, neppure d'autore, ma consonante con le angosce del suo pubblico. Si è fatto perfettamente conforme al conformismo triste di una piazza tenuta insieme da un senso d'inestinguibile inimicizia con il mondo e di nostalgia per il piccolo mondo antico della sinistra d'antan. Pelù non doveva cantare speranze, ma mancanze, non rivoluzioni, ma risentimenti. L'istruttore del successo, a differenza del maestro di musica, sa che la nota giusta non sta sullo spartito, ma nell'orecchio di chi l'ascolta. Una piazza scandalizzata dalle proprie sconfitte pretende lo scandalo contro i vincitori – e lui gliel'ha dato.

Il problema politico non è il modo di fare dell'arruffapopolo uscito dalla naftalina del maledettismo rock e conciato come si conciava vent'anni fa, con vent'anni di più. Il problema è quella piazza altrettanto retrodatata, che insegue "la rossa primavera dove sorge il sol dell'avvenir" nelle memorie malinconiche di una sinistra che non c'è più e finisce per innamorarsi della fascisteria antipolitica e dei feticci del cospirazionismo fantasy. Pelù è anche quello che andò in Tv a parlare delle scie chimiche: come si vede, tutto torna.

Il problema per la sinistra – in realtà per la politica tutta – è quella piazza passata da un senso di superiorità superbo a un complesso d'inferiorità incattivito, dal comunismo al nichilismo, dal sogno della Rivoluzione alla voglia di spaccar tutto. Una folla di autori alla ricerca del proprio personaggio. Che a San Giovanni, tra le avanguardie politicizzate del Concertone, era Pelù, ma che nelle retroguardie anonime del mercato politico ha la faccia di Grillo e di Salvini e potrebbe trovarne perfino di peggiori.

@carmelopalma