C'è modo e modo di guardare alla discussione di ieri nella direzione del PD. Il primo è quello storico-culturale e da questo punto di vista la svolta del Nazareno scuote in modo davvero tellurico l'identità della sinistra italiana. Il leader più "superficiale" della storia progressista ha visto meglio di altri la profondità del vuoto di rappresentanza e di senso, in cui partiti e sindacati progressisti continuano ad esercitare, in astratto, il proprio ruolo di "tutela" del mondo del lavoro e a non ammettere, in concreto, che i tutelati sono sempre di meno e in non tutelati sempre di più e cambiano politicamente bottega - prima con Berlusconi e Bossi e poi con Grillo - lasciando CGIL, PD e sinistra antagonista a celebrare la "non negoziabilità" di diritti (tipicamente il reintegro) che i lavoratori in genere non hanno e forse neppure vogliono più.

Ieri nella replica Renzi ha rottamato quel residuo di lotta di classe che pericolosamente sporgeva nelle parole dell'opposizione interna - non ci sono più i padroni, ha detto, ma i lavoratori-imprenditori, che lavorano come i dipendenti - e ha cestinato quel che rimaneva del pregiudizio contro il licenziamento cosiddetto illegittimo, perché fondato non su di una discriminazione personale, ma su una scelta imprenditoriale discutibile e comunque responsabile, che non ammette, in sé, alla pari di altre, il sindacato di un giudice. Tutto perfetto, insomma, perfino troppo per essere vero.

C'è però un secondo profilo da cui guardare le cose e sta a valle di questa esemplare dimostrazione di rinnovamento. Quanto costa la "pace" all'interno del PD? Visto che Renzi non ha mollato quasi niente sull'articolo 18, ma ha promesso un sistema di welfare to work generoso e efficiente, per cui sembrano mancare le risorse sia sul fronte del bilancio pubblico che di quello delle imprese - a meno di operazioni molto impattanti sul complesso della spesa sociale, leggasi pensioni, e sul cuneo fiscale, per finanziare il quale non bastano i risparmi sugli interessi del debito pubblico - alla fine della grande riforma cosa rimarrà, a parte il superamento dell'articolo 18?

È comprensibile che Renzi non potesse strappare la coperta di Linus della sinistra con una riforma troppo di destra, ma più realistica, con un mix di degiurisdizionalizzazione e livellamento in basso dell'indennizzo del licenziamento (nelle imprese sotto i 15 dipendenti, oggi, non va oltre le sei mensilità), concentrando le poche risorse disponibili sul contratto di ricollocazione, che però a sua volta comporterebbe la rottamazione degli uffici di collocamento pubblico e la radicale privatizzazione dei servizi per l'impiego (che la CGIL e la sinistra PD descriverebbero immediatamente come un nuovo caporalato legale).

Rimane però il fatto - senza sottovalutare la portata storica della discussione di ieri - che se Renzi non vuole pagare politicamente la marcia indietro sull'articolo 18, non può neppure rischiare di pagare troppo dal punto finanziario la "pace" con la minoranza interna, peraltro con euro che non ha e che difficilmente a breve riuscirà a procurarsi.

@carmelopalma

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