logo editorialeNon sappiamo se la radicalità dello scontro all'interno del PD e della sinistra sull'articolo 18 preluda alla riforma altrettanto radicale di un impianto normativo datato nei fini e nei mezzi, orientato com'è a difendere il lavoro dagli abusi dei padroni arricchitisi nel boom del dopoguerra e non ad affrontare la bolla di "non lavoro" che va gonfiandosi nell'Italia della decrescita infelice e di una precarietà economica drammaticamente "democratica" e interclassistica, che colpisce ovunque, in alto e in basso, ma soprattutto in mezzo, nel ceto medio borghese impoverito ed espropriato anche del proprio ruolo sociale.

Non è neppure escluso che la tregua che la CGIL e la sinistra del PD offrirà al premier sia quella di dargli vinta la partita sul piano politico, per almeno pareggiarla sul piano giuridico e di lasciargli violare il tabù dell'articolo 18 per costringerlo a mediare sulle forme del suo superamento e magari per stralciare le parti della riforma più in ombra, ma altrettanto centrali, da quella dei servizi per l'impiego a quella degli ammortizzatori sociali, su cui – malgrado gli incoraggiamenti di maniera di Squinzi - l'esecutivo avrà le sua gatte da pelare anche con Confindustria.

In ogni caso se il premier dovesse averla velocemente vinta – e lo dubitiamo, malgrado la cedevolezza di Cisl e Uil favorevoli, come promesso dal governo, a limitare le innovazioni ai neoassunti e dunque a salvare gli iscritti al sindacato– questa vicenda dimostrerebbe comunque che il PD è un partito che Renzi può dominare, forte di un consenso tuttora irresistibile, ma non espugnare e che la dialettica tra maggioranza e opposizione si è trasferita dal fuori al dentro, dal Parlamento al Nazareno, rendendo anche in questo il nuovo PD sempre più simile alla vecchia DC, un partito che era tanti partiti, un country party che rappresentava tante Italie, che non si amavano e a volte neppure si sopportavano.

A tenere unita la Dc e a rendere imprescindibile il suo ruolo di rappresentanza e di tutela della democrazia italiana era però il vincolo esterno di Yalta. A tenere unito oggi il PD renziano è qualcosa di più fragile ed evanescente, che è Renzi stesso e il fatto che sia il solo politico capace di resistere all'antipolitica e perfino di giovarsi del discredito della politica. In senso stretto non esiste un PD renziano, ma un PD in cui nessuno può contendere oggi a Renzi lo scettro del comando.

Se la vertenza politico-ideologica sull'articolo 18 qualcosa ha già dimostrato, dunque, non è ancora l'adeguatezza di Renzi alla sfida del governo, ma l'inadeguatezza del PD a rappresentare, in sé, il partito delle riforme e l'armatura della presunta autosufficienza renziana. Oggi, in Italia, c'è forse più "renzismo" fuori che dentro il PD, qualunque cosa il nome Renzi significhi di autentico o di inautentico, di problematico e di risolutivo. E con questa complicata verità dovranno fare i conti tutti, dal premier ai riformatori persuasi, in assenza di alternative, che la "tenda" del Nazareno sia diventato l'unico avamposto possibile della buona politica.

@carmelopalma