RenziLingotto

Siamo tre democratici che lo scorso weekend erano al Lingotto.

Due di noi al Lingotto c’erano anche dieci anni fa, e sia pure con età e ruoli diversi hanno attraversato questi dieci anni con la convinzione che l'esperienza dell'Ulivo dovesse portarci a un partito aperto, plurale, a vocazione maggioritaria, con lo sguardo rivolto al futuro e non alla nostalgia o, peggio, alla somma, delle "famiglie" di provenienza. Dopo la deludente e conservatrice gestione di Bersani - che provocò una scissione "silente" tra cui la nostra - in questi tre anni Renzi ha restituito ruolo e profilo riformatore al partito che avevamo contribuito a fondare, facendoci ritenere coerente col nostro percorso il rientro nel Pd.

Il terzo di noi dieci anni fa viveva in Cina, dove lavorava come avvocato d’affari, e alla politica attiva non ci pensava affatto. Arrivato a Pechino nel 1992, dopo una lunga esperienza in Oriente, nel 2012 decideva di tornare in Italia preoccupato per la perdita di rilevanza e potere negoziale del paese ma anche convinto della possibilità concreta di un rilancio dello stesso, contrariamente alla diffusa retorica del declino, rilancio di cui voleva essere protagonista anche attraverso un impegno politico.

Dunque siamo tre democratici che lo scorso weekend erano al Lingotto, e pur essendo partiti da realtà e luoghi diversi, attraverso storie e vissuti diversi ci siamo ritrovati in cammino sullo stesso percorso, affini soprattutto nei riferimenti ideali, nell’individuazione delle priorità, anche a prescindere da qualsiasi militanza di partito.

Fino a qualche tempo fa avremmo potuto definirci "liberaldemocratici", ma gli ultimi eventi ci sconsigliano letture categoriali troppo nette, inducendoci piuttosto ad una selezione dei temi, ad una puntuale investitura del merito delle questioni nella convinzione che per sconfiggere il sovranismo populista sia necessaria la massima convergenza, in una logica riformatrice, tra moderati e progressisti di cui il Pd rappresenta appunto l'architrave.

Sicché diremo che siamo tre democratici convinti di lottare soprattutto a difesa dell’Europa e dell'appartenenza dell'Italia alla UE, del mercato, delle libertà della persona; con la convinta speranza che questo Pd, il Pd di Matteo Renzi, un Pd che ha recuperato molto dello spirito e dell’entusiasmo originari, sia l'unico luogo possibile oggi in cui combattere questa battaglia.

Tuttavia sappiamo bene che c’è chi, pur da posizioni tematiche assai simili alle nostre, non crede nella possibilità di raggiungere determinati obiettivi (che solo per utile convenzione chiameremo "di matrice liberale") stando dentro il Pd. Sappiamo bene che queste persone contestano allo stesso Matteo Renzi una eccessiva timidezza tanto nel taglio della spesa pubblica che nella difesa dell’Unione Europea, solo per citare alcuni esempi. Con queste persone, con questi amici, non mancano occasioni di confronto, a volte anche aspro, all'esito del quale rimane la certezza di una reciproca comprensione ma al tempo stesso anche una distanza di metodo. Non è in discussione quel che è da raggiungere, ma il come raggiungerlo.

Ci sta che non tutti accettino di intraprendere un percorso di militanza nel Pd di Renzi, ma è evidente che marcare costantemente la distanza da questo progetto - al tempo stesso evocando la necessità di una stampella esterna per rafforzarne la prospettiva riformatrice - è una strategia (ammesso che voglia esserlo) discutibile per almeno due ragioni.

La prima è che voler sostenere dall’esterno un progetto che si assume zoppo implica l’accettazione dell’idea che per quanto zoppo quel progetto sia l’unico in grado di dare al Paese le necessarie risposte in un momento storico molto delicato. E allora tanto vale riconoscerlo senza timidezze e infingimenti. La seconda, che riguarda più direttamente i rapporti di forza tra le componenti culturali e ideali dentro (e fuori) il Pd, sta nel fatto che proprio nell’ottica del dialogo costruttivo e nel miglioramento di una proposta politica, il ruolo di chi già oggi si impegna a rappresentare determinati valori ed istanze dall’interno del partito andrebbe a nostro avviso sottolineato e sostenuto.

Diversamente potrebbe passare l’idea che si scommetta proprio su una pretesa insufficienza strutturale del più grande partito italiano per poter offrire un contributo accessorio, ad integrazione di quel che manca. E questo no, non può funzionare.

Non può funzionare perché un partito che fosse davvero strutturalmente insufficiente sui temi dell’Europa e del mercato non avrebbe nessun interesse reale a quel contributo. E invece ce l’ha, a volte magari esprimendolo in forme che scontano determinate caratteristiche caratteriali del leader - vedi la rimozione della bandiera dell’Unione, immagine obiettivamente sgradevole - ma ce l’ha. E se ce l’ha è proprio perché non esiste alcuna insufficienza strutturale, e chi era al Lingotto lo ha capito benissimo.

Non può funzionare perché quella medesima insufficienza del Pd, se fosse reale, avrebbe lasciato da tempo grandi spazi in cui costruire proposte politiche alternative, ma tali spazi - per esplicita ammissione degli stessi amici “liberali", almeno quelli coi piedi per terra - non esistono.

E allora, se siamo d’accordo che il Pd rimane un perno fondamentale dell’Italia che resiste alla spinta populista e sovranista, e che guarda fuori dai confini e oltre il proprio ombelico, se conveniamo sull’esigenza di dare tutti insieme più forza alle battaglie in cui non da oggi siamo comunemente impegnati, e se vogliamo arrivare preparati alle prossime sfide elettorali nazionali ed europee, non ci resta che riconoscere reciprocamente la legittimità e l’utilità dei nostri rispettivi percorsi. Chi scrive queste righe non può non ritenere utile uno stimolo esterno al Pd sui temi indicati. E questa vuole essere l’occasione per ribadirlo con la massima chiarezza.

Al tempo stesso però chi sceglie di stare fuori rivendicando un ruolo di più pura coscienza liberale non può non capire che senza il contributo di chi dall’interno gioca la stessa partita, quella partita non si vince. Magari si può ottenere una visibilità maggiore e forse anche migliori posti in lista (tutto legittimo, intendiamoci) però è evidente che se l’obiettivo è avere più Europa e più mercato, quello lo si porta a casa solo con un forte e trasversale impegno comune. Condividendo, pur nella rispettiva autonomia, onori ed oneri.

Insomma, più che spiegare i motivi per cui non avremmo dovuto incontrarci al Lingotto - ricordiamo sommessamente che Emma Bonino era presente e che è stata molto applaudita - vorremmo ribadire il senso e l’opportunità dello stare insieme, come è avvenuto lo scorso febbraio a Milano, dove abbiamo detto tutti insieme e convintamente “Forza Europa”.

Noi tre eravamo anche lì, del tutto a nostro agio e in coerenza con il nostro percorso, e ci siamo anche oggi con lo stesso spirito. Pronti ad andare avanti con la concretezza e la franchezza che serve.