Più che un ritratto di Berlinguer è l'autobiografia sentimentale di uno dei suoi "ragazzi". La storia del PCI tra l'inizio degli anni '70 e la metà degli anni '80 ridotta ad apologo morale. A prudente distanza dall'attualità e dalla parentela imbarazzante tra il moralismo politico e il qualunquismo antipolitico. Poteva essere un film catartico, invece è solo agiografico.

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Non ci si sarebbe potuti aspettare da Veltroni un film revisionistico della mitologia berlingueriana che, prima e soprattutto dopo la morte sul campo del segretario del PCI, ha costituito la vera identità morale e politica della sinistra post-comunista.

Ci si sarebbe però potuti attendere un film meno autobiografico, meno interessato a raccontare i sentimenti dei "ragazzi di Berlinguer" e degli altri protagonisti di quella stagione politica e più disponibile a indagare la duplice anomalia rappresentata, tra l'inizio degli anni '70 e la metà degli anni '80, da un partito e da un segretario comunisti che si dicevano "diversi", ma che nel prendere (lentamente) congedo da Mosca e nell'accomodarsi disciplinatamente sotto l'ombrello della Nato, non rinunciarono all'intransigenza anticapitalista e all'ostilità nei confronti dell'altra sinistra (quella socialista, liberale, radicale...) e si isolarono in una resistenza antropologica alla modernità (alla società dei consumi e della comunicazione di massa, alla rivoluzione tecnologica, alla personalizzazione del costume sociale, al disgregarsi dell'identità di classe....), così intrappolando la sinistra, anche nei decenni a venire, in un culto della diversità risentito e moralistico e in una scontrosa incomunicabilità con il mondo esterno, proprio come "quando c'era Berlinguer".

Un politico meno implicato di Veltroni e più determinato al parricidio avrebbe potuto spiegare come (per usare il lessico della destra) quella berlingueriana sia stata una "mitologia incapacitante", che trattenne gli epigoni di quella stagione dal riconoscere la realtà (e le possibilità per la sinistra) che Berlinguer non sapeva e non voleva vedere e dall'incamminarsi lungo la strada, quella socialista-democratica, ostruita dall'anatema pronunciato, anche in articulo mortis, dall'ultimo grande segretario del PCI.

Veltroni, che pure nel film accosta subito la figura di Berlinguer a quella di Pasolini, si guarda bene dall'approfondire le analogie "reazionarie" tra i due personaggi e sceglie una chiave di analisi più indulgente. Berlinguer era il segretario troppo forte di un PCI ormai troppo debole, un'icona comunque capace di trascinare con sé un terzo degli italiani di sconfitta in sconfitta – da quella alla Fiat, con la marcia dei quarantamila, a quella, postuma, sul referendum contro il decreto di San Valentino – conservando un'orgogliosa unità interna e una riconosciuta legittimazione esterna. Il PCI, sembra dire Veltroni, non poteva che essere berlingueriano, perché in caso contrario non sarebbe stato più nulla.

Tutti gli errori e le conseguenze di questa scelta rimandano a una necessità storica, come un effetto alla sua causa naturale e dunque non meritano giudizi di responsabilità politica. Era così – questa è la morale di Veltroni – e non poteva essere diversamente. Berlinguer è stato il modo in cui i comunisti hanno potuto continuare a riconoscersi tali – ma soprattutto a sentirsi qualcosa – anche dopo la fine del PCI e dunque non si può far colpa né all'uno, né agli altri di avere voluto serbare quella tenace "diversità" e identificarsi indissolubilmente con essa.

Veltroni, che tra i dirigenti ex comunisti è stato probabilmente il meno incline alla nostalgia e il più disponibile a contaminare l'identità della sinistra traghettandola oltre le colonne d'Ercole del separatismo ideologico, si guarda bene dal prendere politicamente posizione sulle ragioni e sui torti di Berlinguer e racconta al contrario la storia del suo PCI come una sorta di apologo morale, rendendo un tributo personale alla grandezza del protagonista.

Il film di Veltroni esce a trent'anni dalla morte di Berlinguer e all'indomani delle primarie del PD, che segnano per la prima volta la fine dell'egemonia berlingueriana sulla cultura della sinistra italiana. Si tratta di una svolta non solo generazionale, che però paradossalmente non supera quella peculiare "ideologia del nemico", a cui Berlinguer aveva condannato il PCI e che oggi il PD si trova a dovere fronteggiare non in sé, ma fuori di sé. Un Veltroni più coraggioso, e (possiamo dirlo?) psicologicamente più libero, avrebbe dovuto dar conto dell'imbarazzante parentela tra la politica berlingueriana e l'antipolitica grillina e della trasformazione della cosiddetta questione morale, fondata pur sempre sul culto dell'inestinguibile differenza politica comunista, in un qualunquismo trasversale privo di qualunque connotazione ideologica.

Berlinguer, che è diventato segretario quando dall'orizzonte comunista era ormai tramontata la speranza della rivoluzione proletaria, schierò le truppe del partito nella lotta di liberazione dalla mala politica. Il suo PCI smise di minacciare la lotta di classe, ma dichiarò una sorta di guerra civile fredda contro la corruzione, l'abuso dell'interesse privato e i condizionamenti dei poteri forti – in pratica, contro l'intero sistema politico italiano – da cui i comunisti promettevano all'Italia un possibile riscatto umano e civile. Il suo PCI si sentiva e pretendeva di essere riconosciuto – lo scriverà, appunto, Pasolini – come "un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota ...".

Era già tutto scritto. A Grillo è bastato aggiungervi l'utopia fantasy e post-democratica di Casaleggio e un sovrappiù di protervia ignorante, per ricavarne un prodotto politico di massa e tornare a innamorare anche milioni di elettori di sinistra pronti a rimproverare al PD il "tradimento di Berlinguer". Sono questi i voti – ricordiamolo – per cui Bersani ha perduto lo scorso febbraio elezioni che sembravano già vinte. Da questo terreno minato Veltroni, che pure ha scritto e diretto un film per l'oggi e non per il passato, e che lungamente racconta il Berlinguer della "questione morale", si tiene però prudentemente alla larga, praticando quella forma di doppiezza che non consiste nel dire il falso in luogo del vero, ma nel tacere la parte più problematica della verità.

Insomma, "Quando c'era Berlinguer" poteva essere un film politicamente catartico, un modo per riappropriarsi di un'esperienza ambigua, per prenderne pienamente coscienza e insieme per congedarsi definitivamente da essa. È invece diventato un film agiografico, un modo per rinnovare il rimpianto di "qualcosa", e non solo di qualcuno, che non c'è più e per rimuovere l'effetto fatale di quell'antica illusione.