I dati lo dimostrano: non valorizzare il merito fa male non solo al sistema scolastico, ma anche, più in generale, al Paese. È ora di cambiare la scuola, ma per farlo davvero occorre prima di tutto cambiare mentalità.

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Abbiamo recentemente discusso qui su Strade di scuola e meritocrazia. La conclusione, più che altro una presa d'atto, è che la nostra scuola ha scelto di non essere meritocratica. Il dibattito che è scaturito da quell'intervento ha posto nuove domande, la più interessante delle quali è senza dubbio se dopotutto abbiamo davvero bisogno di una scuola più meritocratica. Non è forse meglio avere una scuola, come quella attuale, che ha come primo imperativo, almeno per gli ordinamenti inferiori (elementari e medie), l'accoglienza e l'integrazione?

Rispondere a questa domanda non è facile, sia perché coinvolge la visione del mondo che ciascuno di noi porta con sé, sia perché esistono pochi dati "diretti" che possano aiutare a formulare una risposta. Un paio di elementi in più ci vengono ora forniti dal primo rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca, presentato il 18 marzo scorso dall'Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), e che integra prospetticamente il documento dedicato alle competenze degli adulti diffuso dall'OECD lo scorso anno.

L'ANVUR, ideato nel 2006 dall'allora ministro Mussi, ha avuto fin dalla sua istituzione una storia complessa e travagliata, ad indicare come il tema della valutazione sia un tabù non solo per i gradi di istruzione inferiore, ma anche per quelli superiori. Tuttavia, è anche grazie all'ANVUR che il tema della meritocrazia è tornato di attualità.

Il rapporto si inserisce in una sorta di trilogia, composta dalla VQR, la valutazione dei prodotti della ricerca, dalla ASN, che valuta i profili dei ricercatori per la prima e storica abilitazione scientifica nazionale, altro tema di cui ci sarebbe molto da dire, ed ora dal primo rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca.

Il Rapporto

Cosa dicono le oltre 100 pagine presentate dal presidente ANVUR Fantoni e dal Ministro Giannini? Cose semplici. Cose che si sono sentite fin quasi alla noia, questa volta però presentate finalmente in modo analitico. Riassumiamone alcune brevemente.

Il numero dei laureati italiani è cresciuto: dal 7% degli anni 90 al 22.3% del 2012. Si potrebbe pensare che questo sia un buon risultato, ma il dato in realtà è tutt'altro che esaltante, oltre ad essere probabilmente più figlio dell'evoluzione culturale del paese che non delle riforme messe in campo da Berlinguer in poi, a partire dall'istituzione del 3+2. Bisogna infatti fare un confronto con quello che è avvenuto nel frattempo fuori dai nostri confini, confronto dal quale l'Italia esce con le ossa rotte. Questo anche rispetto a paesi come l'Inghilterra che hanno adottato modelli educativi molto più meritocratici e selettivi dei nostri. Nel Regno Unito, ad esempio, non solo le tasse universitarie sono molto elevate (fino a novemila sterline l'anno, contro una media italiana di circa mille), ma l'accesso è vincolato anche ai voti delle scuole superiori. Eppure i laureati della Regina, tra i 25 e 34 anni, sono il 47%, mentre noi siamo fermi ad un misero 22%.

La Spagna, che per molti versi ci è più simile, totalizza un buon 39% nella stessa fascia di età. Segno che si poteva fare di meglio. Esamineremo un metodo di base che vi permetterà di giocare a Crazy Time il più a lungo possibile con il minimo rischio, guadagnando così grandi moltiplicatori e bonus. Il principio è quello di puntare su tutte le caselle, tranne una, e di distribuire correttamente le puntate in modo da essere rimborsati per la nostra puntata su tutte le caselle. È inoltre possibile attivare il gioco automatico e scegliere tra 10 e 25 giocate automatiche. Queste Crazy Time strategie non è fantastica, ma vi aiuta a ottimizzare le vostre sessioni, a divertirvi e a giocare per lunghi periodi di tempo.

Figura1 Ederle

Il nostro basso numero di laureati, ben al di sotto della media EU, non pare tanto un problema di numeri chiusi, tasse o "troppa selettività" dell'accademia, ma piuttosto un prodotto della cultura del paese e delle sue scuole. Sembra infatti che vi sia lungo lo stivale un disamoramento generalizzato e progressivo per lo studio, che ha portato via via i ragazzi a considerare sempre meno utile, o forse meno attrattivo, intraprendere gli studi universitari.

In tal senso, nonostante sia espressamente dedicato all'università, dal rapporto emergono diversi dati interessanti per riflettere su come abbiano un ruolo, in questo processo di allontanamento, anche i gradi di istruzione inferiore, soprattutto per come preparano i nostri ragazzi alle sfide che li attendono. Ad esempio, sebbene le università italiane non risultino nei vari ranking mondiali tra le più selettive e difficili, risulta che solo il 55% degli iscritti all'Università riesce entro 9 anni (!) a completare il proprio percorso di studi triennale (con una media, sempre per la triennale, di 5,1 anni).

Figura2 Ederle

A questo si aggiunga che quasi un terzo abbandona o cambia corso di studio dopo il primo anno, e sempre un terzo degli studenti risulta inattivo, con punte del 37% al Sud. Un dato che racconta il disorientamento dei ragazzi al momento del grande salto nell'accademia. Lo stesso rapporto identifica tra le cause di questi fenomeni proprio una inadeguatezza della scuola secondaria nel preparare gli studenti non solo sul fronte dello studio, ma anche su quello dell'orientamento. Una impreparazione che il report OCSE, dedicato alle competenze degli adulti (PIAAC - Program for the International Assessment of Adult Competencies), certifica impietosamente come solo un mero 25% della popolazione italiana sia in grado di comprendere testi con una complessità paragonabile a questo articolo. Il dato ci colloca all'ultimo posto in classifica, ma soprattutto apre una riflessione su come si ripercuota sull'economia del paese, oltre che sul dibattito sociale e politico, il fatto che i tre quarti della popolazione non siano in grado di interpretare correttamente i dati necessari a prendere decisioni o di svolgere un lavoro intellettuale.

Figura3 Ederle

Dal report OCSE risulta che anche i nostri laureati presentano competenze linguistiche limitate, paragonabili a quelle di un ragazzo giapponese delle superiori, segno che il problema è profondo e impatta significativamente sulla competitività del sistema paese.

Figura4 Ederle


Alcune riflessioni

Qualunque sia la risposta che si intenda dare alla domanda iniziale, ovvero se l'Italia abbia o meno bisogno di una scuola più meritocratica, non si può non prendere atto di ciò che i dati dimostrano in modo inequivocabile: la necessità di un cambio di marcia e di rotta. La scuola italiana infatti, per come è concepita, non solo non riesce a valorizzare e preparare adeguatamente i ragazzi ad affrontare le sfide di un percorso universitario nemmeno troppo difficile come quello italiano, ma non riesce ad elevare e a far crescere neanche le competenze di chi è rimasto indietro. Nessun altro paese avanzato riesce a fare peggio di noi. Certo, anche questo è un risultato, ma non pare sia uno di quelli di cui andar fieri.

La scuola oggi ha deciso, meritoriamente, di concentrare le sue attenzioni sulla fascia più debole della popolazione scolastica. Questo però ha portato ad un appiattimento verso il basso di tutti i programmi in tutti gli ordini scolastici.

Paradossalmente a farne le spese non sono però solo i ragazzi dotati, che comunque, grazie alle loro doti innate, riescono a sviluppare competenze ed interessi autonomamente, ma piuttosto quella fascia di ragazzi che se opportunamente incentivata sarebbe in grado di sviluppare competenze linguistiche e matematiche "avanzate", ma che in una scuola da minimo sindacale finisce per "sedersi", rinunciando allo sforzo di una crescita personale che, potenzialmente, potrebbe trasformarsi un domani anche in una crescita professionale. Si tratta di circa un 25% (se calcolato rispetto alla media OCSE) della popolazione scolastica cui di fatto, privandola di stimoli adeguati, viene tolta la capacità di competere ad armi pari con i propri coetanei degli altri paesi sviluppati.

Questo livellamento verso il basso della didattica si ripercuote anche sull'università. Non deve stupire perciò che il nostro paese sconti uno spread di innovazione più che significativo rispetto all'Europa che conta. Lo European Innovation Scoreboard ci classifica al 15esimo posto in UE, solo il 3,3% dei laureati è occupato in un settore innovativo e meno del 4% della popolazione universitaria, 65.000 unità, è composta da stranieri che scelgono l'Italia come meta per studiare (contro percentuali dell'11% di Francia e Germania o del 20% del Regno Unito, stando ai dati dello European Migration Network Italy).

Solo ripartendo dalle basi, da una scuola capace di educare al merito e all'impegno, forse, potremo riuscire a colmare il gap che ci sta sempre più allontanando dalle economie avanzate e evitare di essere superati da quelle emergenti. L'alternativa è condannare il paese al declino intellettuale, cui inevitabilmente seguirà anche quello economico. Per vostra informazione, entrambi sono già iniziati.