Neppure l'ex Cav., che oggi si inorgoglisce, aveva osato tanto. Per le nuove assunzioni, la liberalizzazione del tempo determinato non cannibalizzerebbe solo il contratto standard, ma anche quelli atipici e privi di tutele. Allungando la durata del contratto a termine, è più probabile alla sua conclusione l'assunzione in via definitiva. Ma Renzi sul punto terrà?

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Il decreto in cui sono raccolte le norme del Jobs Act già definite ha mosso i primi passi verso la conversione in legge alla Camera. La Commissione Lavoro ne ha cominciato l'esame nei giorni scorsi. Già dalle dichiarazioni preliminari, si capisce che il provvedimento non avrà vita facile e che i problemi più seri verranno dall'interno della maggioranza, anche se la direzione del PD del 28 marzo ha approvato la linea esposta nella relazione del segretario-premier.

Il presidente della Commissione, Cesare Damiano, ha dichiarato che intende modificare il testo nei punti più qualificanti: dalla soppressione del vincolo della causale per tutto l'arco dei 36 mesi, al numero delle possibili proroghe, fino alle norme di semplificazione del contratto di apprendistato per quanto riguarda il piano formativo e l'obbligo di trasformazione di una certa quota di rapporti, prima di stipularne di nuovi. A conti fatti, in Commissione Lavoro è tanta l'incertezza. PD e SeL possono combinare una maggioranza spuria.

Il decreto ha scomposto gli schieramenti: a sostenerlo ci sono una parte del PD, Forza Italia, NCD e – immaginiamo – le formazioni centriste. A volere delle modifiche sostanziali sono l'altra parte del PD (maggioritaria nel gruppo parlamentare?) e una forza di opposizione come SeL. Le altre opposizioni sanno fare solo demagogia. E quindi lavoreranno contro l'impostazione del decreto. A chi scrive non piace Matteo Renzi, trova che sia un ragazzotto pasticcione e presuntuoso e non sopporta che continui a collocare in una immaginaria "palude" chiunque azzardi formulare delle critiche a ciò che lui stesso definisce espressione di un "cambiamento", per ora solo a parole. Eppure, anche chi scrive deve ammetterlo: con il cosiddetto decreto lavoro il premier ha mandato un segnale forte di innovazione. La sinistra del partito ha rivolto al provvedimento delle critiche non infondate. Un contratto a termine con siffatte regole – ha sostenuto Cesare Damiano – "cannibalizzerà" il contratto di inserimento (già "unico") a tutele crescenti: una proposta (sulla quale si è cimentata tutta intelligentsia di sinistra), un tempo contrastata, oggi accettata anche dalla CGIL e indicata, fino a poche settimane or sono, come il "pezzo forte" del Jobs Act.

Stefano Fassina, di rincalzo, ha svolto il seguente ragionamento: sono i nostri alleati di centro destra a chiederci queste norme? Se è così, è giusto trovare un compromesso come abbiamo fatto con l'Imu. Ma fare tutto da soli sarebbe una inaccettabile "sudditanza culturale". Analoghe considerazioni sono state esposte da Guglielmo Epifani. In effetti, le conseguenze che deriverebbero (l'uso del condizionale è appropriato, perché non siamo convinti che il governo rimanga sordo alle richieste di modifica) da una riforma del contratto a termine come quella prefigurata nel testo iniziale del decreto finirebbero per fare di questa forma contrattuale il modello standard nelle assunzioni, perché nessun datore di lavoro sensato utilizzerebbe il sarchiapone del contratto unico (per ora confinato in una delega ancora in elaborazione), ancorché depotenziato nei primi anni di validità per quanto riguarda la tutela del licenziamento.

Ma la novità sta proprio in questa inversione delle parti: argomenti fino a poco tempo fa considerati ineccepibili e "politicamente corretti", da un angolo visuale di sinistra, oggi vengono contraddetti non già da un governo dell'ex Cav (il centro destra, che ora si inorgoglisce, non aveva mai osato tanto) ma da un esecutivo che pretende di rappresentare il "nuovo che avanza". Nei giorni scorsi, a quanti lamentavano che la liberalizzazione dei contratti a termine avrebbe favorito la precarietà, il ministro Poletti ha ricordato che già adesso il 70% delle assunzioni (sono dati di flusso e non di stock) avviene con questa forma contrattuale. Più recentemente, il ministro ha sottolineato che, grazie alle modifiche introdotte nel decreto, il governo vuole ridurre il contenzioso. Proposito lodevole, perché, nella sua genericità, il cosiddetto causalone sottoponeva le imprese alla roulette russa dei tribunali. Ma quando mai un ministro di sinistra, per giunta ex PCI, si sarebbe permesso di criticare l'invadenza dei giudici del lavoro anziché apprezzare il loro modo (sbrigativo?) di "fare giustizia" in favore del lavoratore "contraente più debole del rapporto"?

In occasione di un'intervista televisiva il ministro Poletti ha spiegato che, stante l'attuale normativa dei 12 mesi "acausali" (di cui alla legge Fornero), le aziende licenziano prima di raggiungere quel limite, mentre con la nuova disciplina sarebbero invogliate, se il lavoratore lo merita, ad andare avanti per tutto il triennio, a conclusione del quale diventerebbe più probabile l'assunzione in via definitiva. Se confrontiamo questa analisi (estremamente realistica e comprensiva delle esigenze delle imprese) con la cultura del sospetto che stava alla base delle norme contenute nella legge Fornero (rivolte a porre ostacoli di ogni tipo all'utilizzo del lavoro a termine, fino al punto di inserire, tra contratti in successione, pause di durata persino irragionevole, poi corrette a furor di popolo) non possiamo ignorare l'esistenza di una differente visione del mondo e dei rapporti sociali.

Del resto, come insegna l'esperienza, proprio perché garantirebbe meglio le imprese nei confronti delle scorribande giudiziarie, il contratto a termine liberalizzato non "cannibalizzerebbe" soltanto i contratti a tempo indeterminato, ma anche quelli atipici e caratterizzati da minori tutele per i lavoratori. Un altro elemento di rottura, prima ancora che il governo, chiama in causa il PD, un partito che si è sempre schierato a fianco della CGIL anche quando essa (come nei casi degli accordi Fiat o della mancata sottoscrizione di taluni protocolli interconfederali) aveva chiaramente torto. Oggi, delle critiche della CGIL, il PD di Matteo Renzi si dice pronto "a farsene una ragione". Poi si vedrà. Ogni giorno ha la sua pena.