Il Dollaro è un main character di Hollywood, rispettato e ambìto in America certo più del voto. È la conversione monetaria dei valori costituzionali, d’altronde: libertà, prosperità, opportunità iconizzati in un biglietto verde. L'Euro invece è il capro espiatorio perfetto.

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Quando noi abbiamo adottato l’Euro stavamo tutti abbastanza bene, l’economia si rinnovava, le nuove tecnologie aprivano mercati, creavano professioni, generavano a una velocità pazzesca fatturati che sembravano non smettere di aumentare mai. Abbiamo subìto il colpo della conversione con la Lira che ha raddoppiato i prezzi e dimezzato il potere d’acquisto, ma ci siamo rassegnati perché le cose appunto andavano bene, il lavoro c’era, si aprivano nuovi cantieri, e le città governavano il declino dolce - che in realtà si percepiva da un po’, latente. Non abbiamo ricavato nulla di politicamente costruttivo, da quei primi segnali: lo smarrimento si è fatto disagio solo dopo, ma neanche allora la politica ha colto.

Abbiamo cominciato così a sospettare dell’Euro, ad averlo in dormiente antipatia: quando le cose hanno iniziato a mettersi male ed a peggiorare velocemente. La crisi è stata una svolta ad U sull’autostrada sulla quale sfrecciavamo entusiasti poco più di un lustro prima, spinti dalla bolla della new economy, dell’immobiliare, della finanza. La svolta è stata brusca e ha lasciato a terra morti e feriti, e con qualcuno bisognava pur prendersela.

L’Euro è il capro espiatorio perfetto: il colpevole verosimile, e indizi a gogò. I primi mesi, per dire, spendevamo monete da 1 euro come fossero 100 lire, per realizzare sempre troppo tardi l’ammontare effettivo dell’esborso. Anche la correlazione temporale tra l’uso dell’euro-valuta e il viraggio radicale tra ascesa e declino è un indizio che reclama luce. Il passaggio successivo che avvicina l’indizio alla prova è il conforto razionale che ci viene da chi ci spiega che il cambio avrebbe potuto essere meno sfavorevole – sebbene la maggior parte di noi non abbia gli strumenti cognitivi per giudicare quale avrebbe dovuto essere il tasso di cambio giusto.

Nonostante tutti questi indizi, sappiamo però che l’Euro è innocente. Si è trovato sul luogo del delitto per caso e si è sporcato le mani di sangue. Mandarlo al rogo così, per sfogarci? Non ci credono nemmeno i grillini. Abbiamo interesse a scagionare l’innocente messo sul banco degli imputati perché ci conviene di più trovare il colpevole vero. I sistemi produttivi e protettivi europei vetusti, la governance acefala dei processi decisionali europei, il corporativismo nazionalistico-dipartimentale che frena la messa in comune di spazi di decisione: questo ha ucciso il lavoro degli europei e la wishlist di opportunità spalmata da Lisbona a Taillin. I cittadini europei hanno evidentemente voglia di menare il responsabile della loro infelicità, e non aspettano che di essere arruolati nell’esercito di liberazione dalla crescita zero. Ed è una lotta giusta, se fatta contro il colpevole vero.

È la lotta per la liberazione del potenziale dalle catene del segno meno – meno mobilità, meno valore del capitale umano, meno generatività dei fattori. Non impressioni la retorica bellica: la pace col nemico armato si fa armandosi. Armarsi per non combattere – come insegna Sun Tzu – non limitarsi a parare i colpi nucleari del nemico. E meno timidezza nel dire che il nemico non è l’Euro ma la composizione del bilancio europeo - topic stranamente assente nel dibattito sull’europeismo monetario. Di bilancio europeo, invece converrebbe occuparsi. Converrebbe invocare una spending review per stanare gli sprechi e rottamare i vested interest che annidano pure là. Ottimizzare la spesa – non necessariamente ridurla, ma darle un senso radicalmente sviluppista. Una visione politica del budget europeo – da cui i trattati. E quindi parliamo d’altro, non dell’Euro.

La difesa comune ad esempio grida vendetta. È strategicamente sensata ed economicamente una manna. L’opportunità politica interna c’è, ed è rafforzata dalla necessità dei bilanci nazionali. L’avallo politico internazionale, pure. Obama, a Bruxelles, non avrebbe potuto manifestarlo più esplicitamente. Rottamare le politiche comuni corporative come la Pac è un altro grande inno -  liberatorio, non punitivo – all’assalto alle rendite che hanno lobbizzato l’Europa. Dagli agricoltori da proteggere alla agricoltura da valorizzare, sarebbe già un gran passo.

Altro capitolo di spesa, altre opportunità da far venire fuori: l’energia. L’Europa la compra, o meglio dipende, da paesi a sovranità schizofrenica. E questo non conferisce alle prospettive produttive continentali una base solida su cui progettare lo sviluppo futuro. L’Europa non può forse permettersi l’auto-sufficienza energetica come gli Stati Uniti, ma potrebbe comunque provare a bastarsi un po’ più da sé - se ad esempio investisse nella ricerca delle risorse che in parte già ha, se facesse sistema, se diversificasse e non disegnasse politiche energetiche con la matita dell’utopia. E poi c’è il digitale – che solo l’Europa può coniugare con storia, arte, capitale culturale intangibile. Un’autostrada immateriale per il nostro prodotto migliore – il brand Europa, che fa arrivare il business in fabbrica passando dal web. Anche qui, una prateria sterminata da conquistare a chilometri di fibra.

Come d’altra parte da liberare c’è una immensità di capitale accademico depotenziato, in paesi come il nostro, dal parrinage politico-corporativo. Si dirà, l’istruzione è pertinenza nazionale. Vero, ma l’Unione europea finanzia già le nostre università, e ne alimenta - anche se suo malgrado - le inefficienze. È interesse comune snidarle, perché il vantaggio attuale dei pochi decuplicherà quello potenziale dei molti. La ricerca di qualità produce ricchezza, migliora il sistema economico, favorisce la competitività delle imprese, migliora le condizioni economiche generali, aumenta la mobilità. Lo spazio che può dar valore a tutto questo è la competizione efficiente e la qualità degli investimenti, quindi una visione sistemica che solo la prospettiva continentale può dare. Non si progetta la competizione tecnologica con l’India nell’ufficio di un ministero romano.

La rabbia dei loser dell’era Euro non va repressa ma indirizzata verso l’obiettivo giusto, e ci vuole anche arditezza. Il discorso sull’Europa risulta attraente, se rovesciato: temerario, determinato, liberatorio, sviluppista. Chiunque, anche chi come Matteo Renzi semplifica troppo questioni variamente complesse, potrebbe visualizzare immediatamente il valore politico della "semplificazione".

Il budget europeo è il pozzo nero nel quale stagnano le nostre risorse e si ammorbano le nostre opportunità. Si parli di questo in campagna elettorale. Sempre di una dichiarazione di guerra si tratta, non però all’Euro, che in realtà è nostro alleato, ma agli sprechi e alle colpe, agli interessi corporativi ed alle irresponsabilità dei palazzi europei. 

@kuliscioff