Le condizioni che rendono utile, o almeno non inutile, una disciplina ad hoc per gli impianti sportivi. L'attuale dibattito sta scadendo in una bega contro i "palazzinari". Un principio di buon senso da accettare: favorire gli investimenti privati finalizzati al profitto non è un "tradimento" dello spirito sportivo.

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Il governo delle larghe intese è ambizioso e lo si era visto sin dalla sua genesi; il difficile compito di tenere assieme avversari di un tempo non deve essere sembrato abbastanza a Enrico Letta. Già, perché oltre ad affrontare prove politiche decisamente impegnative e scivolose, il Premier ha dimostrato la sua intraprendenza, annunciando al CONI la presentazione di un emendamento al disegno di legge di stabilità sull'impiantistica sportiva. Settore in cui l'Italia sconta un notevole ritardo, tale da renderla scarsamente competitiva rispetto agli altri Paesi europei. Questo è ancor più evidente se guardiamo al calcio: troppi pochi sono ancora gli stadi di proprietà (i progetti dei club vengono ostacolati da problemi burocratici, urbanistici e finanziari) e poche le opportunità di investimento legate ai grandi eventi, come dimostra il duplice tentativo fallito dell'Italia di ospitare gli Europei di calcio nel 2012 e 2016.

Alla luce di queste considerazioni, l'intento del Premier è lodevole perché coglie il punto centrale di una riforma di sistema fino ad oggi rimandata: un deciso investimento in infrastrutture sportive sarebbe cruciale per dare un volto e una forza nuovi all'intero movimento (allo sport di vertice e quello di base). Ma serve una legge? La Juventus - unica tra le squadre di Serie A ad avere uno stadio di proprietà – ha costruito una struttura che genererà ricavi, iniziando così a competere con i club più blasonati d'Europa sul fronte del fatturato, anche in assenza di un intervento normativo statale. Si dirà: ci sono voluti ben 7 anni. Vero, così come è vero che l'Udinese, per poter avviare la ristrutturazione dello stadio Friuli e ottenerne la concessione per 99 anni, ne ha dovuti attendere 10. Tuttavia, se a questi due esempi si aggiunge il microsviluppo territoriale attivato e accelerato dal progetto della lega cadetta "B Futura", grazie al quale le società Lanciano e Varese sono pronte per costruire nuovi centri sportivi all'avanguardia e altre (come Ascoli, Bari, Brescia, La Spezia, Livorno, Modena, Terni, Verona, Vicenza) hanno avviato un dialogo serrato con le rispettive amministrazioni comunali, si comprende che non è e non sarà "una legge" a far costruire gli stadi, ma la volontà e l'interesse di qualcuno.

La sfida di Letta e Alfano non è però inutile. Esiste certamente una domanda di impianti sportivi (sono una dozzina nella sola Serie A di calcio i club che puntano a ricostruire o rifare il look allo stadio); promuovere gli investimenti nello sport contribuirebbe senza dubbio alla crescita economica, considerato che complessivamente il settore ha raggiunto la dimensione del 3% del Pil e un giro d'affari pari a oltre 50 miliardi di euro; la tempistica e la sicurezza (grazie alla probabile fiducia) con cui dovrebbe essere licenziata la legge di stabilità garantirebbero all'emendamento un destino certo; infine, la velocizzazione e la determinazione della durata delle "pratiche" - cardini della norma circolata in bozza in questi giorni - contrasterebbero i bizantinismi burocratici e i tempi amministrativi giurassici. Una legge-obiettivo può quindi non essere inutile, purché aiuti gli investimenti privati.

In tal senso la norma elaborata dall'esecutivo centrerebbe solo in parte questo obiettivo perché, mentre sembra lasciare agli imprenditori la possibilità di compensare, ovvero di edificare assieme all'infrastruttura dedicata allo sport altre capaci di generare volumi commerciali (ad esempio supermercati, palestre, centri commerciali, eccetera) e di ottenere il via libera ai lavori con una procedura certa e tempi rapidi (al massimo dovrebbero trascorrere 14-15 mesi), esclude la possibilità di costruire immobili ad uso abitativo (dovrebbe dipendere da eventuali accordi fra comuni e club di calcio). Dare al privato che edifica qualcosa che risulti funzionale al raggiungimento dell'equilibrio economico-finanziario dell'intervento è necessario, soprattutto in tempi come questi. E non è questione di indulgenza nei confronti delle lobbies del mattone; è una semplice considerazione che riflette le dinamiche del mercato e non si contrappone necessariamente alla cautela verso eventuali variazioni di piani regolatori e alla filosofia del rispetto dell'ambiente.

Lo svolgimento del dibattito pubblico in materia non sta aiutando. La schizofrenia dimostrata dal PD (persino tra esponenti del governo, l'uno contro l'altro sul tema dell'emendamento) e il confronto che ne sta scaturendo hanno ricordato quanto gli addetti ai lavori hanno vissuto nella precedente legislatura, con la proposta di legge sullo stesso tema conosciuta come "Legge stadi". Oggi come allora, è quindi la clausola residenziale la linea di frattura tra "innovatori" e "conservatori". In termini abbastanza frustranti per gli operatori dello sport, il dibattito "scade" in una disputa sull'edilizia.

Come evitare che una legge sugli stadi non sia una tra tante grida manzoniane, un caso come un altro di inflazione regolatoria? Accettando un principio di buon senso: i privati investono in un impianto sportivo solo se ne possono avere un ritorno. Non è un "tradimento" dello spirito sportivo. Se la politica considera davvero lo sport un comparto strategico e dinamico, dovrebbe accettare questo dato di realtà.