L'intelligence tra legge e potere
Dicembre 2013 / Diritto e libertà
I servizi di intelligence operano in un delicato equilibrio nello spazio tra diritto e potere, alla radice stessa dello Stato. Sottoporli a una normativa stringente ma poco intelligente potrebbe condurre a esiti drammaticamente opposti a quelli auspicati.
Nel giorno di Halloween 2013 tre spettri (spooks : il termine con cui gli inglesi chiamano gli agenti del MI5, il Servizio Segreto) si sono manifestati a Londra, di fronte all'Intelligence and Security Committee del Parlamento inglese, per un'audizione pubblica di novanta minuti. Il fenomeno è paranormale e davvero inconsueto: i direttori delle agenzie d'intelligence britanniche hanno sempre coltivato un senso molto spiccato della riservatezza. Oggi, però, viene chiesto loro di partecipare a conferenze stampa e audizioni pubbliche. In questa audizione specifica, i tre – direttori del GCHQ, grosso modo l'equivalente britannico della NSA, del MI5 e del MI6 – hanno dovuto spiegare che non sorvegliano i cittadini a loro insaputa, che non ne intercettano le comunicazioni in modo sistematico e che non ne uccidono alcuno, ma che, in ogni caso, tutto ciò che fanno ha lo scopo di proteggere la nazione e i suoi cittadini. Cioè, hanno dovuto mentire pubblicamente di fronte all'organo di controllo parlamentare.
Perché? Perché le classi politiche dei paesi democratici vogliono arruolare i servizi d'intelligence nelle loro “macchine di produzione del consenso elettorale”, quelli che un tempo erano i partiti, e che oggi sono comitati elettorali posticci, in parte installati dentro le istituzioni. Sempre più spesso, questo vuol dire mettere le agenzie d'intelligence sulla traiettoria dei colpi che altrimenti raggiungerebbero il governo.
Se queste agenzie hanno sempre fatto capo ai governi, fin dalla loro creazione, non per questo sono uno strumento di sostegno alla propaganda governativa. Queste sottili distinzioni, però, sfuggono a classi dirigenti sempre più in crisi di consensi e di voti. Per questo, si vuol dare in pasto a un'opinione pubblica distratta e superficiale perfino un aspetto così delicato delle funzioni di governo. Questa scarsa sensibilità si aggiunge a una miserevole conoscenza di cosa sia e cosa faccia, e, in ultima analisi, a cosa serva un'agenzia di intelligence.
Per questo motivo stiamo correndo seri rischi nel momento in cui la politica, in risposta agli scandali di Wikileaks, di Snowden e alle successive evoluzioni, vuole sottoporre i servizi di intelligence a norme giuridiche più stringenti, che aspirano a garantirne trasparenza, responsabilità e pieno controllo democratico. A ciò si aggiunge il proposito dei giuristi e dei legislatori di sottoporre ogni attività umana a una precisa e dettagliata norma giuridica, perseguendo l'ideale della giuridicizzazione integrale della realtà: tutto ciò che esiste deve essere normato, affinché solo ciò che è normato esista.
Tutto questo non sarebbe un problema se i servizi segreti fossero una semplice polizia criminale, o un reparto tecnico delle forze armate. Non è così: i servizi d'intelligence nascono, con molte difficoltà, per fornire ai governi informazioni – e interpretazioni delle informazioni raccolte – a sostegno delle loro decisioni politiche; che poi i governi usino poco e male tali strumenti, è un'altra faccenda. Questa funzione ne comporta altre tre, come corollario: questi servizi devono raccogliere informazioni e registrarle, quindi tendono ad accumulare poderosi archivi; tali informazioni debbono essere spesso raccolte all'insaputa di chi le possiede o di chi ne è oggetto, quindi tutto l'apparato deve essere protetto dalla riservatezza; da queste informazioni si genera spesso la necessità di mettere in atto operazioni – ad esempio contro il terrorismo, o il crimine organizzato, o governi ostili – coperte da vari gradi di segretezza. A queste, si aggiungono altre funzioni più sofisticate, che tralasciamo.
Se i governi rinunciassero a veder svolte queste funzioni e ad usare le capacità e i risultati che queste producono, potrebbero risolvere in un attimo tutti i problemi “svelati” dallo scandalo Wikileaks e dalle sue gemmazioni. Invece, sembra che abbiano tutta l'intenzione di gestire la questione con la stessa massiccia dose di ipocrisia con cui trattano ogni altro problema che fingono di cercare di risolvere. In questo caso, però, le conseguenze potrebbero essere particolarmente pericolose.
Se si sottopone un'agenzia d'intelligence a una normativa giuridica stringente ma molto rigida e poco intelligente – cioè poco capace di cogliere la complessità dell'attività di intelligence – si corrono tre rischi. Il primo è il rischio della paralisi: sopraffatta da norme dettagliate che cercano di controllarla disciplinandone minuziosamente ogni attività, un'agenzia d'intelligence si troverà nell'impossibilità di svolgere molte funzioni, e si dedicherà alla compliance rispetto alle norme e ai regolamenti, che diventeranno il vero scopo dell'organizzazione. Quando si verificherà un grave evento – ad esempio un attentato – che chiamerà in causa l'agenzia, questa potrà dimostrare di aver rispettato alla lettera le norme, ma ciò non le risparmierà le critiche, fino a mettere in dubbio l'utilità della sua stessa esistenza.
Il secondo rischio è la riduzione di un servizio d'intelligence a una forma di polizia un po' più evoluta. Alcune agenzie hanno questa conformazione fin dall'origine – ad esempio l'FBI – mentre altre l'acquisiscono perché reclutano i loro membri quasi esclusivamente fra poliziotti e affini. Alcune delle funzioni più sofisticate delle moderne agenzie di intelligence, incluse le operazioni all'estero, buona parte della counterintelligence, molte information operations, sono troppo complesse per una forza di polizia, per quanto professionalmente preparata. La mentalità, la cultura, la logica di organizzazione e di azione necessarie in quegli ambiti sono piuttosto differenti da quelle della polizia.
Il terzo rischio, il più insidioso, è la divaricazione: un'agenzia d'intelligence mal disciplinata da cattive leggi comincia a funzionare a due livelli distinti. Il primo è quello esteriore, formale, istituzionale: quello che partecipa alle conferenze stampa e rassicura i controllori politici nelle audizioni parlamentari. Il secondo è quello dell'effettività, in cui si fa ciò che deve essere fatto, per la sicurezza dei cittadini e il bene della nazione, almeno all'inizio. Il problema non è l'ipocrisia o la duplicità che tale divaricazione genera, ma il fatto che questi due livelli di esistenza, quello forzatamente pubblico e quello forzatamente segreto, che diviene presto occulto, tenderanno ad allontanarsi, e a guardarsi con sempre maggiore sospetto.
A ciò si aggiunge un'altra questione: uno degli strumenti del controllo politico e parlamentare dell'intelligence passa attraverso i bilanci. Se un'agenzia comincia a operare in modo occulto, intere sezioni e quasi tutte le operazioni dovranno essere finanziate al di fuori dei bilanci controllati dal parlamento. I modi per procurarsi fondi “esterni” al bilancio dello Stato sono, purtroppo, numerosi e terribilmente facili da mettere in atto, soprattutto per un servizio segreto. Molti servizi d'intelligence – certo quasi tutti quelli dei paesi in via di sviluppo – sono in varia misura coinvolti nel traffico di stupefacenti, di armi, di pietre preziose, di segreti industriali, di rifiuti, nel contrabbando in genere, e nel riciclaggio dei proventi illeciti che ne risultano. La mafia russa, ad esempio, ha beneficiato molto dall'impiego delle competenze di una massa enorme di ex-agenti di vari servizi segreti dell'ex Patto di Varsavia. La professionalità paga.
Quando un'organizzazione dipende in modo sempre più pronunciato da un certo cespite di finanziamento tenderà a proteggerlo, e a considerare le attività che a questo sono associate come le sue attività principali, perché più redditizie. Se queste sono attività criminali, l'organizzazione diventerà, a poco a poco, un'organizzazione criminale. Smetterà di servire lo Stato e servirà solo se stessa e i propri capi, fintanto che saranno al potere. L'esito paradossale di una normativa sui servizi d'intelligence molto stringente ma poco intelligente può dunque essere quello di generare pericolose organizzazioni criminali.
La questione è delicata perché i servizi d'intelligence si collocano, per loro stessa natura, in quell'area che separa lo Stato come creatura politica che si organizza in un ordinamento giuridico e si esprime attraverso la costituzione e le leggi, dallo Stato come concentrazione di potere reale ed effettivo, che esiste indipendentemente dalla propria legittimazione democratica o dalla propria forma giuridica.
Inoltre, le funzioni che i servizi d'intelligence svolgono sono così delicate che non esiste paese al mondo che si affidi a una sola agenzia. Oltre a ciò, i servizi segreti spesso collaborano tra loro, anche a livello internazionale, anche se quasi mai lealmente – ed è opportuno che sia così. Poiché sono sottoposti a ordinamenti giuridici differenti, alcuni di questi non riescono a collaborare con gli altri in modo pieno o paritario: rischiano dunque di essere “tagliati fuori dal gioco”, perché incapaci di scambiare informazioni in quantità e qualità comparabile a quelle che vorrebbero ottenere dagli altri.
Fra l'altro, se non possono raccogliere o cedere certe informazioni perché la legge glielo vieta, non possono neppure acquisire o ricevere legalmente quelle stesse informazioni dagli altri. Un servizio d'intelligence parzialmente o completamente “tagliato fuori” è assai meno capace di svolgere le proprie funzioni e di servire il governo e il paese. D'altra parte, se i servizi d'intelligence smettono di svolgere le loro funzioni, qualcun altro, dentro o fuori il perimetro dello Stato, s'incaricherà di soppiantarli, perché sono funzioni preziose e potenzialmente molto lucrose.
Ripristinare il controllo dello Stato in questo ambito, una volta che lo si è perso, è sempre una faccenda complessa, lunga e, a tratti, brutale. La soluzione, come ci si può aspettare, non è semplice. Un buon punto di partenza è comprendere che il controllo politico deve essere esercitato in modo intelligente, perfino astuto, perché non si deve accontentare del rispetto formale delle norme, ma deve accertare la conformità sostanziale dell'azione dei servizi d'intelligence rispetto all'interesse generale: la valutazione e il controllo non sono dunque atti giuridici ma politici, non sono l'espressione dell'autorità formale ma del potere effettivo, senza dare la caccia agli spettri.
INDICE Dicembre 2013
Editoriale
Monografica
- Datageddon: il futuro anteriore della privacy
- USA ed Europa, e ‘intercettateci tutti’. Verso lo Stato di Polizia
- Tra privacy e giustizia, diamo fiducia alla legge
- La bozza del Regolamento UE sulla privacy: una pericolosa taglia unica
- L’odissea senza fine della normativa europea sulla privacy
- Ringraziamenti all'Istituto Italiano per la Privacy
Istituzioni ed economia
- Niente vincoli, siamo italiani
- L'incertezza delle politiche sta affondando l’Italia
- Austerità sì, austerità no. Dal dibattito accademico alla propaganda
- Matteo oltre la marzianità
- La rivoluzione di Xi Jinping, più mercato e più partito
- Tra centralismo e nazionalismi, una terza via liberale per l'Europa
Innovazione e mercato
- Money for nothing, il debutto della nuova Politica Agricola Comune
- Sanzioni alle banche: funzionano davvero?
- IKEA, la multinazionale che compra dalle imprese italiane
- A che serve una legge sugli stadi?
Scienza e razionalità
- Stamina e il paradosso del benefattore al contrario
- Il welfare robotico, androidi al servizio dei bisogni
- 'Segna con me'. Per il riconoscimento della Lingua Dei Segni
Diritto e libertà
- L'intelligence tra legge e potere
- Perseguitato come Tortora? Silvio spaccia il sabotaggio per garantismo
- Cronache da Nottingham – Torniamo allo Statuto (del Contribuente)
- Gli spazi della pena. L’edilizia carceraria, costruzioni senza architettura