logo editorialeQuale giudizio dare alle prime notizie sul piano di privatizzazioni tra i 10 e i 12 miliardi di euro annunciato da Letta e Saccomanni? La cessione di quote di aziende pubbliche è un valore intrinseco, perché con i proventi delle alienazioni lo Stato libera risorse private "catturate" dal debito pubblico, si stimola una maggiore efficienza finanziaria e gestionale e si crea una pressione sul regolatore perché apra alla concorrenza i settori in cui tali aziende operano.

Ma l'Italia ha un debito pubblico di oltre 2mila miliardi di euro, gli interessi passivi nel 2013 ammonteranno a 84 miliardi (dati MEF, la Ragioneria dello Stato aveva diffuso una cifra maggiore), una cifra che secondo le stime più accreditate è destinata a salire fino a 100 miliardi nel 2015. Siamo insomma tornati ai livelli del 1992, quando l'Italia decise di abbandonare il Sistema Monetario Europeo, la lira si svalutò e il governo Amato impose un prelievo forzoso sui conti correnti. Lo stock di patrimonio mobiliare che il governo intende collocare sul mercato è uno sfarfallìo di spread, un ammontare assolutamente ininfluente rispetto alle dinamiche future del debito italiano.

Pesa come un macigno sull'operazione il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti. Sarebbe tra gli oggetti da privatizzare, mentre è oggi considerata l'acquirente per eccellenza. Il premier ha dichiarato che metà dei proventi delle vendite saranno destinati direttamente ad abbattere il debito. L'altra metà a ricapitalizzare proprio la CDP, come più volte auspicato da Bankitalia. Come rileva Oscar Giannino sul Messaggero, emerge la preoccupazione che ciò "possa servire a far rientrare lo Stato sulla rete di Telecom Italia, o per costituire quel maxi polo tra Ansaldo Breda, Ansaldo Trasporti, Sts e magari Fincantieri, che non avrebbe logica guardando ai mercati mondiali ma che molto piace a manager pubblici e tifosi dello Stato". Insomma, sorge il sospetto che l'operazione abbia come scopo nemmeno troppo nascosto quello di rafforzare il ruolo di CDP come longa manus della politica interventista dello Stato nell'economia.

Nel 2011 un policy paper dell'Istituto Bruno Leoni elencò le privatizzazioni possibili, le tante imprese pubbliche e l'enorme patrimonio immobiliare. La crisi ha certamente depresso i valori di mercato degli asset pubblici, ma parliamo pur sempre di un ordine di grandezza tra le dieci e le venti volte superiore al programma dell'attuale governo, dal quale restano colpevolmente esclusi realtà come Trenitalia, Poste Italiane e le grandi aziende municipali. Il governo, peraltro, non cederà il controllo di nessuna delle imprese coinvolte, riducendo ulteriormente l'appetibilità di queste privatizzazioni e il loro valore pro-concorrenziale.

L'Italia sta morendo di pressione fiscale, di spesa pubblica e di debito sovrano. Le operazioni di maquillage sulla prima (vedi la ridicola vicenda della tassazione sugli immobili) e le timide spuntature sulla seconda e sul terzo aggravano la situazione, perché consegnano ai mercati internazionali un messaggio di impotenza. Ci stiamo schermando dietro quel "whatever it takes" del governatore della BCE Mario Draghi, ma non basterà, non per sempre. Rischiamo di accorgercene presto.

 

PS Matteo Renzi si è dichiarato contrario alle privatizzazioni proposte dal governo. C'è chi ci legge una opposizione "a prescindere" alle scelte di Letta, Alfano e Saccomanni. "Non è il momento giusto di mercato", dichiara il sindaco di Firenze, ripetendo un mantra abbastanza stantìo e in voga almeno dai tempi di Tremonti. Aggiunge Renzi "E' sbagliato anche per altri motivi". A che serve essere criptici, se non ad alimentare le letture peggiori?