Matteo Renzi Martina copia

Il Patto di Bilancio europeo - noto come Fiscal Compact - è sostanzialmente un impegno a ridurre il debito pubblico, sulla base di un percorso di contenimento del deficit e attraverso il ricorso al principio del pareggio di bilancio, sottoscritto nel 2012 dai paesi dell'Unione Europea (tutti, esclusi il Regno Unito, la Repubblica Ceca e la Croazia, quest'ultima entrata nella UE solo nel 2013).

Esso va letto tenendo presente sia la fase storica in cui fu proposto e poi approvato (la grave crisi economica e finanziaria che aveva portato alcuni stati sull'orlo del default), sia il complesso delle scelte di politica economica e monetaria nel quale esso si cala: una maggiore disciplina fiscale fu il necessario contraltare alla creazione di meccanismi di salvataggio (il fondo Salva-Stati) e all'approccio "generoso" scelto negli ultimi anni dalla BCE (il famoso quantitative easing).

Nonostante la mitologia che lo accompagna fin dal suo debutto, il Fiscal Compact non ha mai rappresentato una camicia di forza per le scelte di politica economica dei singoli stati nazionali: l'Italia, ad esempio, ha ripetutamente superato le soglie di deficit previste, motivando tale scelta con la persistenza della crisi economica e ricevendo negli anni il via libera a questi sforamenti e rinvii degli impegni assunti. Che senso ha dunque, come sembrano fare moltissimi esponenti politici italiani (da ultimi Matteo Renzi e Maurizio Martina del PD), indicare come obiettivo il superamento e l'archiviazione del Fiscal Compact? Ha senso solo se si hanno chiare le conseguenze di tale approccio.

Rinunciare esplicitamente al Fiscal Compact significa dichiarare ai contribuenti italiani, agli altri Stati membri dell'Unione Europea e agli investitori di titoli di stato italiani, che il nostro Paese non vuole più seguire un percorso chiaro e trasparente di disciplina fiscale, ma preferisce affidarsi anno per anno, o magari semestre per semestre, alla discrezionalità e agli umori della politica e dei partiti al governo nella fissazione dei propri equilibri e disequilibri di bilancio.

Possiamo permettercelo? Ma soprattutto, vogliamo? Il nuovo conformismo anti-austerità - che va da Fratelli d'Italia a Sinistra Italiana, passando per Lega, Forza Italia, M5S e ampi settori del PD - compie purtroppo un doppio processo di rimozione della realtà.

Da un lato, rinunciare al rigore di bilancio, almeno finché qualcuno continuerà a comprare i titoli di stato italiani, significa caricare le prossime generazioni di italiani di un fardello di debito ancora maggiore e meno sostenibile. I giovani di oggi, i figli e i nipoti degli attuali lavoratori, gli italiani di domani: che moralità c'è nel voler lasciare loro una condizione di finanza pubblica ancora peggiore di quella che abbiamo "trovato" noi?

Dall'altro lato, puntando i piedi contro il Fiscal Compact, si elude la vera debolezza dell'economia italiana: la scarsa competitività, la produttività stagnante, la bassa propensione all'innovazione. A furia di bloccare Tap, Uber o Flixbus, o di rimandare sine die riforme e modernizzazioni dell'apparato pubblico, finiamo impantanati nei nostri tassi di crescita dello zero virgola. E così, incapaci di far crescere il Pil (cioè il denominatore di tutti i benedetti rapporti di finanza pubblica) per timore di scomodare questo o quell'interesse costituito e organizzato, ci illudiamo di poter sospendere la realtà invocando la fine dell'aritmetica - questa è, in fondo, la critica al Fiscal Compact.