Tutti sembrano chiedere all’Islam italiano di prendere le distanze dal terrorismo. Tuttavia il clamore delle richieste finisce per silenziare le numerosissime prese di distanze che, in un più o meno assordante silenzio mediatico, ci sono state. Intanto, continua a essere eluso il dovere costituzionale di assicurare a cittadini e residenti di fede islamica il godimento del diritto di libertà religiosa in condizioni di effettiva uguaglianza giuridica.

Pacillo Moschea

Negli ultimi mesi si è moltiplicato in modo evidente il numero di persone che si sono cimentate in un’operazione assai di moda: chiedere qualcosa all’Islam.

Difficile pretendere che una religione, ossia – per dirla col dizionario Treccani – “un complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità” possa dare ascolto ad una richiesta: ma anche nell’ipotesi in cui si tratti di metonimia, dove l’astratto (l’Islam) viene usato per il concreto (i fedeli musulmani), le problematiche legate a questa richiesta non cambiano di molto.

Parliamo infatti di richieste sostanzialmente molto generiche (“prendere le distanze dal terrorismo”, “manifestare in modo più discreto la propria fede”) fatte a persone immaginate come un “coacervo anonimo di indistinti” (l’espressione – utilizzata in un diverso contesto - è di Giorgio Peyrot), le quali invece hanno una propria individualità ed appartengono a una credenza di fede divisa in correnti, scuole giuridiche, movimenti, differenti realtà territoriali; una credenza di fede priva non solo di un’autorità umana di carattere universale capace di dettare norme vigenti erga omnes, ma anche di una sostanziale convergenza verso una interpretazione univoca delle norme religiose regolanti atti che riguardano gesti ordinari della vita quotidiana (ad esempio: può una donna salutare con una stretta di mano un collega o un superiore di sesso maschile?)

Il corto circuito “chiedo all’Islam per chiedere ai musulmani” / “quali musulmani, però, non mi interessa, perché tanto sono tutti uguali” è diventato ormai una costante non solo del discorso politico, ma anche di certo mondo culturale, il quale si è sovente cimentato in un’altra richiesta piuttosto “tranchant”: quella, rivolta all’Islam “moderato”, di prendere le distanze dall’Islam “radicale”. Ora, anche qui l’uso delle parole andrebbe ripensato, e forse anche certe richieste assumerebbero un’altra veste. Quand’è che una credenza religiosa può dirsi “moderata”? Quando non si esagera con l’ottemperanza ai precetti che la caratterizzano? Quando si obbedisce a questi ultimi ma con flessibilità? Quando – a differenza dei “radicali cattivi” – si chiude un occhio sull’imperatività del messaggio di fede perché in fondo dobbiamo essere tutti uomini e donne di mondo?

Le esperienze religiose – di norma – sono giocoforza radicali, perché si radicano nel cuore dell’uomo, e ne connaturano in modo profondo la cultura, l’identità, l’etica. Ma ben difficilmente il religioso musulmano “radicale” diventa terrorista: lo testimonia la straordinaria differenza numerica tra soggetti implicati in attività terroristiche e musulmani praticanti. Allora la richiesta andrebbe riformulata in modo diverso: bisogna chiedere ai musulmani di prendere le distanze da chi uccide in nome di un’ideologia presentata come una “autentica interpretazione” dell’Islam.

Il fatto è che questa presa di distanze è stata fatta in tutti i modi e con straordinaria chiarezza dalla quasi schiacciante totalità dei più autorevoli giuristi e sapienti islamici: basterebbe prendere in mano il bel libro “Contro l'Isis. Le fatwa delle autorità religiose musulmane contro il califfato di Al-Baghdadi” curato da Marisa Iannucci e recentemente pubblicato per i tipi di Giorgio Pozzi; basterebbe leggere i comunicati stampa dell’UCOII e delle altre principali organizzazioni islamiche mondiali; basterebbe pensare ai gesti compiuti dai musulmani delle chiese cattoliche dopo l’omicidio di padre Hamel; basterebbe pensare alla dichiarazione di Marrakech sulla libertà religiosa.

Il problema è che questi messaggi “passano” solo limitatamente sui media e – soprattutto – nel dibattito pubblico e politico, dove l’immagine dell’Islam è per l’appunto stereotipata, monolitica, granitica e spesso circondata da un’aura di fondo di sfiducia (“fanno finta”… “il vero Islam vuole la guerra” … “ci odiano”).

Allora, forse, qualcosa potrebbe provare a chiederla (uso a mia volta la metonimia) anche l’Islam italiano: e penso prima di tutto alla necessità che il sistema radiotelevisivo pubblico inizi a veicolare la conoscenza dei fatti, dei precetti e dei dogmi che caratterizzano tale fede in modo obiettivo ed imparziale, senza una politicizzazione fine a se stessa. Penso alla necessità che il sistema di istruzione del nostro Paese inizi a farsi carico della questione dell’analfabetismo religioso in cui versano molti italiani. Con la conseguenza che la chiave di lettura di molti dei fenomeni politici e sociali che agitano i nostri tempi sono oggi al di fuori dell’oggetto del sistema di istruzione, il quale – beninteso in modo laico ed oggettivo, secondo parametri di carattere storico, sociale e politico-giuridico – dovrebbe cominciare in qualche modo a farsene carico.

Penso però anche alla necessità che i musulmani rivendichino il loro status di persone, nella cui dignità si radicano dei diritti che assumono un carattere di inderogabilità diverso in dipendenza delle norme costituzionali ed internazionali che li riconoscono, ma che non sempre trovano adeguato riconoscimento nel nostro Paese.

Prima di tutto mi riferisco alla libertà di culto. L’Italia è indubbiamente uno dei Paesi europei in cui è difficile edificare una moschea o adibire a luogo di culto islamico un edificio preesistente, vuoi per un’ostilità sociale che si alimenta dell’analfabetismo suddetto, vuoi per leggi regionali (ad esempio quella lombarda, recentemente peraltro dichiarata incostituzionale) che stabiliscono un regime differenziato per costruire chiese e luoghi di culto delle confessioni religiose con intesa, da una parte, e luoghi di culto delle confessioni religiose senza intesa, dall'altra (quest’ultimo molto più complesso e caratterizzato dalla necessità di rispettare requisiti tali da portare a una discriminazione indiretta). Questa situazione crea un’evidente contrarietà a quel nucleo duro della libertà religiosa garantito non solo dall’art. 19 della Costituzione, ma anche dall’art. 9 della CEDU e dall’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, e deriva certamente anche dalla mancanza di una legge generale sulla libertà religiosa nel nostro ordinamento giuridico.

Va infatti ricordato che – stante l’assoluta discrezionalità del Governo nella scelta di aprire e di chiudere le trattative per la stipulazione di un’intesa con le confessioni diverse dalla cattolica ex art. 8, 3° comma Cost. – la rappresentanza istituzionale associata dell’Islam italiano non ha oggi una legge che disciplini i suoi rapporti con la Repubblica italiana, e deve perciò affidarsi alla legislazione sui “culti ammessi” del 1929-1930 (legislazione, per intenderci, adottata in tempi di confessionismo di Stato) o addirittura al diritto comune sulle associazioni. In mancanza di una legge di approvazione di un’intesa, sarebbe quanto mai opportuno che il Parlamento legiferasse esplicitamente in tema di libertà religiosa, garantendo degli standard generali di rispetto di tale diritto in modo svincolato dalle diverse interpretazioni giurisprudenziali. Ciò ricondurrebbe la governance dei rapporti tra Islam e Repubblica italiana entro l’alveo di quell’uguale libertà di cui debbono godere tutte le confessioni religiose ex art. 8, 1° comma Cost.; uguale libertà che sembra oggi in discussione per effetto di una relazionalità non sempre dialogica avente l’effetto di definire i rapporti istituzionali tra lo Stato e l’Islam italiano secondo coordinate almeno in parte (neo)giurisdizionaliste. Coordinate ovviamente inadatte ad assicurare quella “distanza di principio” che secondo Rajeev Bhargava è connaturata alla laicità dello Stato e si ha solo allorché l’intervento dei poteri pubblici nella governance del fatto religioso sia necessario per garantire i diritti fondamentali in condizioni di uguaglianza.

Penso soprattutto a quel “Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano” insediato presso il Ministero dell’Interno, di cui per me è davvero complesso comprendere la funzione dal punto di vista delle linee di politica ecclesiastica tracciate dalla Costituzione: e ciò soprattutto nell’ottica di una diversità di trattamento che non è prodromica alla stipulazione di un’intesa (il Consiglio non rappresenta l’Islam italiano, essendo un organismo a composizione mista) e che finisce per identificare le organizzazioni islamiche come un Sonderfall la cui pretesa “eccezionalità” rimbalza poi nel dibattito pubblico.

Bisognerebbe perciò riflettere con attenzione sulla proposta dello stesso Consiglio di chiedere agli Imam, le guide della preghiera islamica, “un percorso civico di riconoscimento delle regole dell'ordinamento italiano" cui si accompagni il dovere di predicare in italiano. Tale percorso sarà necessario anche per gli Imam cittadini italiani? E perché la prescrizione dovrebbe valere solo per gli Imam e non anche per altri ministri di culto? La predica in lingua italiana varrà per tutte le esperienze di fede, anche ad esempio per le Sante Messe celebrate in Sudtirolo?

Lo spazio a nostra disposizione non ci consente di andare oltre. L’auspicio è quello di una politica che sappia riprendere in mano tutta la questione dei rapporti tra Stato e confessioni, in nome del rispetto dei principi costituzionali, senza cedere alla tentazione di particolarismi e politiche di eccezione che rischiano di aumentare il sospetto, lo stigma, l’emarginazione.

E allora come combattere il terrorismo, il fondamentalismo aggressivo, le prassi contrarie ai diritti delle donne e dei minori? Con le leggi che esistono, con la mediazione culturale, con l’educazione civica (non degli Imam, delle persone, di tutte le persone) e – ma qui siamo fuori dal giuridico - con l’amicizia. Solo un rapporto di vera amicizia, di attenzione ai bisogni dell’altro senza etichettamenti (culturali o religiosi), di costruzione di un cammino comune può disinnescare quell’antisocialità, quell’isolamento e quella marginalizzazione che sono sempre alla base della violenza.