Le biografie degli shahid europei testimoniano, nella gran parte dei casi, un processo di "islamizzazione del radicalismo" e di rottura politica con le comunità religiose islamiche. Il terrorismo jihadista, con il suo richiamo a una 'fede pura', è l'espressione più estrema e moderna del divorzio tra religione e cultura.

Annicchino Charlie

Una copertina dell’Economist del settembre 2013, non passata inosservata, lo definiva il “nuovo volto del terrore”. La rete jihadista che per alcuni anni sembrava aver fatto perdere le sue tracce si è riaffacciata con tutta la sua potenza dopo gli eventi che hanno portato alla nascita dello stato islamico in quei territori della Siria e dell’Iraq che abbiamo ormai imparato a conoscere bene.

Se la morte di Osama Bin Laden aveva lasciato pensare a un possibile arretramento del network del terrore, negli ultimi mesi abbiamo avuto la conferma di quanto fosse mal riposta questa speranza. La rete qaedista è rimasta in piedi e ad essa si sono aggiunti ulteriori nodi che coprono ormai tutti i continenti: dal Sud America all’Asia.

L’affiliazione non avviene necessariamente nei Paesi egemonizzati dall’islamismo politico. I mezzi per il reclutamento sono ormai conosciuti, le forze di sicurezza li monitorano costantemente. Basta pensare, tra gli altri, a Shumoukh al-Islam, Ansar al-Mujahedin, Jabhat al-Nosra, forum utilizzati per la campagna di reclutamento siriana, oppure all’uso di Youtube come mezzo per richiedere finanziamenti per specifiche campagne.

Nel vortice jihadista i confini tra tradizione e modernità, come quelli della geografia, appaiono sfumati, a volte di difficile percezione. Così come sono difficili da inquadrare le biografie e le identità degli shahid che cercano il martirio per la santità. Esempio classico della porosità dei confini sono le storie degli occidentali convertiti all’Islam protagonisti di innumerevoli episodi di terrorismo ed estremismo di matrice religiosa. Rappresentano, non a caso, una delle maggiori preoccupazioni dei servizi di sicurezza occidentali.

In una delle ricerche più importanti che sono state pubblicate sull’argomento, Lorenzo Vidino, direttore del “Program on Extremism” alla George Washington University e coordinatore di una commissione sul tema voluta dal governo italiano, ha rivelato come siano “dozzine” gli europei convertiti arruolati in gruppi terroristici. Le loro storie possiamo leggerle nelle cronache quotidiane che ci raccontano di suicidi annunciati e guerra santa, vergini promesse in Paradiso e vite mandate in frantumi.

È impossibile ripercorrere tutte le biografie, ma è sufficiente ricordarne alcune. Ad esempio in Marocco troviamo Pierre Richard Robert, Yacoub per i combattenti, o anche “l’emiro dagli occhi blu”. Convertitosi all’Islam a 18 anni al ritorno da un viaggio in Turchia, comincia a frequentare i campi d’addestramento delle cellule integraliste in Afghanistan, si stabilisce poi in Marocco dove secondo la polizia si mette a capo di una cellula integralista a Tangeri. Da Saint-Etienne a Tangeri passando per Kabul, vita da venditore di auto usate con frequentissimi viaggi in Arabia Saudita, Germania, Francia, Belgio e Spagna, Robert è il maestro d’armi del gruppo terroristico. Gli ortodossi della Salafia Jihadia gli avevano affidato il compito di reclutare ed educare i militanti per combattere la miscredenza e la società empia. I suoi sodali hanno infatti confessato come fosse stato lui ad impartire istruzioni sull’utilizzo di bombe, granate e tattiche di guerriglia urbana. Arrestato con altre 33 persone, è stato poi condannato all’ergastolo.

Come non pensare ai fratelli David e Jerome Courtailler nati sulle Alpi francesi, a St. Pierre en Faucigny, rigorosa educazione cattolica, poi per entrambi il baratro della droga. Un’unica salvezza: l’Islam. Prima Brighton, poi Leicester e infine l’appartamento condiviso a Londra con il ben più noto Zacarias Moussaoui. Poi duemila dollari in contanti, una sim telefonica ed un biglietto aereo per l’Afghanistan. Dopo quasi un anno il ritorno in Europa, i problemi con le polizie di qualche Paese, poi per entrambi l’arresto a Rotterdam il 13 settembre 2001. Nell’appartamento numerosi passaporti falsi pronti per l’uso, video sulla Cecenia, istruzioni su come costruire ordigni. Un’assoluzione, poi altre condanne arriveranno dopo.

Muriel Degaque, da Charleroi, è la prima donna kamikaze europea, convertitasi all’Islam dopo aver sposato un musulmano. Decide di abbandonare la sua tranquilla vita da impiegata in un panificio nel sud del Belgio per andare a morire martire a Baquba, in Iraq, in un attentato kamikaze contro un convoglio americano. E Richard Reid, ve lo ricordate? Si converte all’Islam in una prigione inglese e decide di imbottirsi le scarpe di esplosivo e di provare a far saltare in aria il volo dell’American Airlines Parigi-Miami.

Non mancano gli italiani, ad esempio Giuliano Ibrahim Delnevo, ventiquattrenne genovese morto in Siria, dove combatteva nelle fila delle milizie islamiche che si oppongono a Bashar al Assad. Fino ad arrivare alle cronache dei giorni nostri, al commando degli Shebab che ha portato la morte nel centro commerciale di Nairobi o a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza. Alcuni provengono dalla Siria, dalla Somalia, dal Kenya. Altri da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Finlandia. Tutti giovani, tutti decisi a combattere in nome di Allah una guerra in terra straniera.

Molte storie, ma percorsi spesso simili: prima la da’wa mediante la quale, dopo la conversione, si testimonia la propria adesione all'islam; poi il passaggio a mujaheddin, combattente per la fede, fino all’estremo, la trasformazione in shahid, il martire. In Europa le conversioni sono in costante crescita. Se è vero che in molti casi si tratta di conversioni di facciata, in altri casi è la conversione alle istanze maggiormente fondamentaliste a farla da padrone. Inutile poi sottolineare come i convertiti siano particolarmente apprezzati dalle organizzazioni terroristiche: possono meglio confondersi con l’ambiente e soprattutto non possono essere espulsi.

Resta da chiedersi perché avvenga questo percorso che porta all’estremizzazione ed alla vocazione terroristica fondata su basi religiose. Tra le spiegazioni più convincenti avanzate dagli studiosi resta quella del politologo francese Olivier Roy che in “La Santa Ignoranza” (Feltrinelli, 2009) descrive molto bene il fenomeno di “exculturazione del religioso” ovvero della separazione fra religione e cultura. Se la cultura della società in cui si vive è percepita come pagana, non riformabile, empia, la via al religioso allora si separa dalla interazione con essa per ritirarsi nel “puro religioso” per tutelare la purezza della fede.

Come scrive Roy: “Il fondamentalismo risulta così la forma del religioso più adatta alla mondializzazione, in quanto assumendo la propria deculturazione, la trasforma in strumento di pretesa all’universalità”. Se le conversioni prima avvenivano anche all’interno di un processo di inculturazione e di condivisione della cultura di riferimento oggi “il religioso circola al di fuori di ogni sistema di dominio politico”. È proprio per questo motivo che lo stesso Roy ha ripetutamente sottolineato in numerosi interventi come in molti casi possa parlarsi di una vera e propria “islamizzazione del radicalismo”. Un formante religioso che riesce a circolare oltre la comunità culturale di riferimento e si adatta ai tempi della iper-modernità tecnologica. Sempre Roy ha scritto, in un intervento pubblicato da Le Monde del novembre 2015: “i giovani convertiti, per definizione, aderiscono alla religione “pura”. Il compromesso culturale non gli interessa (a differenza delle vecchie generazioni che si convertivano al sufismo) e si uniscono alla seconda generazione nell’adesione a un “islam di rottura”, una rottura generazionale, culturale e politica. Non serve a niente offrir loro un islam moderato, perché è precisamente il radicalismo ad attirarli”.

L’Islam globale ed europeo ha ancora molti nodi da affrontare, ad esempio per quel che riguarda la tutela dei diritti civili e la condizione della donna, ma il ritorno alla “tradizione” invocato da molti jihadisti sembra avere in realtà molto di “moderno”: un folle bisogno di radicalismo che le epoche più buie della nostra civiltà hanno, purtroppo, più volte sperimentato.