L'Europa non può salvarsi con una doppia rimozione, quella dei problemi globali che ha dinanzi e che richiedono una gestione comune, e quella dei peggiori fantasmi del suo passato, segnato dall'ostilità e dalla frustrazione nazionalista, che oggi risuona minacciosamente nella polemica contro Bruxelles. Non è vero che l'Unione non abbia alternative, ma non ne ha di migliori. A dimostrarlo è proprio la Grecia.

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La storia non è finita, tantomeno in Europa. Lo shock provocato dell'ondata di rifugiati che ha investito il vecchio continente ne è la drammatica testimonianza. Si tratta però di un fenomeno dirompente anche in senso positivo, visto che ha imposto il peso di una realtà che in troppi si rifiutavano di riconoscere. Le leadership europee sono state prese alla sprovvista perché durante gli ultimi due anni hanno cercato di esorcizzare e rimuovere il fatto, rappresentandolo come un'emergenza tutto sommato transitoria e locale, che premeva sulla frontiera sud-orientale dell'Unione e lì poteva restare confinata.

Col senno di poi, risultano oggi ancora più grottesche le polemiche sull'organizzazione e sui costi dell'operazione Mare Nostrum e sul sostanziale disimpegno della gran parte degli stati membri dell'Ue da una missione umanitaria allora accusata, neppure a mezza bocca, di essere un pull factor dell'ondata migratoria. Per riconoscere la realtà e la portata endemica e strutturale del fenomeno che aveva iniziato a investire l'Europa, è stato necessario che i profughi, mossi dal push factor costituito dalla destabilizzazione di vaste aree del mondo arabo e medio-orientale, si riversassero anche su rotte terrestri e dunque si facessero più visibili e "invadenti". Allora e solo allora - quando nessun paese europeo si è più potuto illudere di esserne immune - il problema è diventato europeo. Troppo tardi e con troppa ipocrisia.

Difficile dire oggi cosa sarà delle istituzioni comuni alla fine di questa vicenda. Le istituzioni dell'Unione fanno o non fanno quello che i governi e gli elettori europei che le sostengono vogliono che esse facciano o non facciano. Punto. È grottesco che molti politici oggi trascinino l'Europa sul banco degli imputati, non avendo loro per primi voluto che la politica sull'immigrazione fosse comune e rifiutando tuttora di negoziare le proposte della Commissione per una gestione coordinata dell'emergenza. Se i politici lombardi non vogliono accogliere i rifugiati che arrivano in Sicilia, come possono biasimare i governi del nord Europa che non vogliono farsi carico del peso dell'emergenza, che continua a gravare soprattutto su alcuni paesi, a partire dall'Italia? Usare l'Unione Europea come capro espiatorio è un atteggiamento vigliacco.

L'Europa non è meglio o peggio dei suoi cittadini e dei governi dei paesi membri. Anzi, su questo tema, in cui la necessità di politiche europee si scontra con l'assenza di poteri e strumenti operativi direttamente attivabili e ancora tutti da costruire, accusare Bruxelles è ancora più insensato: un esercizio di cattiva coscienza a buon mercato. L’Europa che è nata dalla visione dei leader ora è messa alle corde dai follower, come ci ricorda sempre Mario Monti, cioè da quanti assecondano gli umori di brevissimo periodo degli elettori, anziché persuaderli della necessità di guardare lontano, agli effetti di lungo periodo delle decisioni più facili e "popolari".

Così, avremo – o non avremo - l'Europa che ci saremo meritati: nulla di più, nulla di meno. Quale sarà? È ancora tutto da vedere. Nessun esito è scontato. Dobbiamo fare i conti con il rischio che l'Europa in cui cresceranno i figli di noi baby boomers non sia quella che abbiamo conosciuto noi, ma quella dei nostri padri, della Seconda guerra mondiale e della Shoah, o quella dei nostri nonni, della Prima guerra mondiale. Il giudizio sulla ri-militarizzazione delle frontiere interne, prima che morale, deve essere storico e politico. Se i nuovi muri fra gli stati eretti da governanti spregiudicati avranno il consenso dei rispettivi popoli, l'Europa tornerà a essere divisa dalle ostilità e dallo sciovinismo nazionalista.

Dove tutto questo porti dovremmo saperlo perfettamente, perché l'Europa lo ha lungamente sperimentato, e in forma - si sperava - "definitiva", nella prima metà del secolo scorso. Dalla Germania, il Paese che allora ha prima imposto e poi pagato il prezzo più alto al delirio nazionalista e che ha elaborato nel modo più severo il senso della propria colpa, è arrivata - credo non a caso - la risposta più coraggiosa ed europea alla questione dei rifugiati. Se la Merkel avrà il consenso dei tedeschi sulla sua scelta avrà dato concretamente il segno di una leadership e di una visione europea possibile.

La dimensione europea è quella che dà più prospettive di libertà, sicurezza e prosperità a tutti i cittadini europei. Di tutti i grandi problemi che abbiamo di fronte, a partire da quello della "periferizzazione" economico-strategica dell'Europa, non ve n'è alcuno di cui l'Unione sia causa e di cui non possa essere rimedio migliore di quello approntato “sovranamente” da ciascuno stato nazionale.

È questa una verità dimostrabile, ma non sempre riconoscibile, sovrastata com'è dai sentimenti ostili e dal senso di abbandono fomentato dai pifferai dalla frustrazione nazionalista. Il nodo della fragilità europea è tutta in questo iato, che rimanda all’inadeguatezza delle elite europee e ad alcuni "vizi" politico-culturali purtroppo ricorrenti nella nostra storia comune.

Nella politica di difesa, in quella monetaria o in quella per l’immigrazione, l’unione può fare la forza e la divisione può fare solo la debolezza dell'Europa come mera entità geografica. Per questo bisogna sgombrare il campo dalla discussione “Europa sì”, “Europa no” e concentrarsi su “Europa come” per i prossimi sessant'anni.

L’Europa come spazio integrato di libertà civili ed economiche, l’Europa del mercato unico, non potrà sopravvivere a un processo di delegittimazione e di smantellamento delle istituzioni comuni. Si illude chi, al di là della Manica o oltre la ex Cortina di ferro, pensa che in fondo sia possibile un downsizing da Unione ad area di libero scambio. Non sarebbe utile e non sarebbe possibile. La fine dell'integrazione politica per il prevalere di un senso, malinteso, ma suggestivo, di autotutela nazionale farebbe come prima vittima proprio l'integrazione economica. Il protezionismo è il corollario inevitabile e lo strumento privilegiato della retorica nazionalista.

Non è un paradosso che la lezione migliore sull'imprescindibilità dell'Unione venga dalla Grecia e anche dal nuovo successo elettorale di Tsipras, che ha spinto fin dove era possibile lo scontro con Berlino e Bruxelles, ma si è fermato (giustamente) prima di varcare il confine dell’ignoto e dell'abbandono dell’euro e dell’Ue.

Tsipras, alla fine, è stato più saggio dei tanti politici europei che auspicavano la Grexit e avevano esplicitamente appaltato a Syriza il compimento del loro disegno euro-nichilista.

L’Europa va cambiata come vanno cambiati i nostri stati, le nostre regioni e i nostri comuni. Ma l’Europa non è la nostra condanna, è la via per un futuro migliore e l'argine al passato peggiore della storia europea. Sta ai leader e agli intellettuali - si sarebbe detto un tempo - avere il coraggio di questa verità. Sta agli elettori scegliere tra l’illusione e la realtà.