La riflessione sui nuovi equilibri globali è sempre più urgente e più ineludibile. La Cina e gli USA, i “big two” della politica mondiale, dovranno confrontarsi sempre più spesso: perché il confronto sia proficuo, tuttavia, è necessario un chiarimento su tante questioni che, ad oggi, restano irrisolte.

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“Io gli darei un panino di McDonald’s” diceva a fine agosto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, criticando l’accoglienza - a suo dire eccessivamente calorosa - che la Casa Bianca si apprestava a riservare, di lì a un mese, al presidente cinese Xi Jinping in occasione della sua prima visita negli Stati Uniti.

Perché, dice Trump, la Cina “ci ha succhiato via soldi e lavoro”. Fosse stato un politico ‘normale’, e non il miliardario showman, si sarebbe forse acceso un dibattito (serio) sul rapporto fra le due potenze; la battuta, invece, è sommessamente finita nella routine giornalistica, scansata dalle ben più pepate sortite che Trump – il quale, in vista delle primarie, resta in testa a tutti i sondaggi, quanto a gradimento tra i repubblicani - ha riservato all’amministrazione Obama ma soprattutto ai suoi malcapitati sfidanti.

Danni collaterali del populismo, verrebbe da dire, perché mai come ora sarebbe invece necessaria una riflessione approfondita sui nuovi equilibri globali, sui rischi (ma anche sulle opportunità) di un salto di livello della presenza di Pechino sullo scacchiere mondiale, sulle incognite della crescita cinese, sulle intenzioni del presidente Xi, sulla consistenza della presunta ‘amicizia’ tra Russia e Repubblica Popolare, sull’inconsistenza dell’Europa, sul groviglio mediorientale e sulla tragedia delle migrazioni di massa, e su molto altro.

Anche e soprattutto sulle intenzioni cinesi e sulla natura del ‘Chinese Dream’ che Xi va sponsorizzando in giro per il mondo da che è diventato presidente. Quest’ultimo punto, come era facilmente immaginabile, ha riacceso la vexata quaestio di come affrontare i nodi interni della Cina (diritti umani, libertà di espressione, Tibet, Taiwan e Hong Kong, sistema giudiziario) con un interlocutore che ha poca voglia di essere messo sul banco degli imputati. E così la presunta ‘debolezza’ di Obama ha dato materiale ai candidati repubblicani, da Carly Fiorina a Scott Walker, i quali (con meno humour di Trump) hanno invocato maggior durezza nei confronti del gigante asiatico.

Semplificazioni da campagna elettorale, alquanto distanti da qualunque forma di realpolitik, soprattutto se in ballo ci sono i rapporti tra i ‘big two’ dell’attuale scenario globale. Non che gli Stati Uniti siano stati passivi davanti all’ascesa cinese, negli ultimi decenni.

Nel corso della prima amministrazione Obama, la squadra del segretario di Stato Clinton elaborò la dottrina del ‘pivot to Asia’: l’idea di spostare l’attenzione statunitense dall’Atlantico al Pacifico segnalava - secondo quanto sostiene oggi, tra gli altri, un attento osservatore dei movimenti delle potenze mondiali come Edward Luttwak - una volontà ‘aggressiva’ di contenimento di un peso massimo economico che già allora iniziava a manifestare la volontà di contare anche dal punto di vista geopolitico, a partire dal proprio ‘cortile di casa’.

La strategia non pare aver funzionato granché, almeno a vedere quel che è accaduto da quando Xi Jinping è asceso alla vetta del potere cinese impostando la sua presidenza su una chiara nota nazionalista: il riaccendersi delle tensioni con il Giappone, con il Vietnam e con le Filippine; il faraonico progetto della nuova via della Seta (di cui si è già diffusamente parlato qui su Strade); la marcia trionfale in Africa e in Sudamerica; insomma, l’affermazione del modello cinese come alternativa a un Occidente in crisi economica e di identità. Il motivo? ‘Peso specifico’ cinese a parte (Mao ripeteva spesso che essere tanti era uno degli asset strategici principali del paese), i soldi, ovviamente.

La ricchezza cinese e la sua crescente diffusione nelle economie del resto del mondo, insomma: non solo investimenti monstre e shopping strategici nei paesi in crisi, ma anche un significativo pacchetto di titoli di stato altrui, a partire proprio da quelli statunitensi.

Certo, “dopo il tifone economico che ha investito la Repubblica Popolare, l’aereo di Xi, quando è atterrato, luccicava meno del previsto”, come ha scritto David Ignatius sul Washington Post. La crisi ha lambito anche la Cina, i ripetuti tonfi della borsa di Shanghai hanno agitato la comunità internazionale: mentre la propaganda interna sminuiva le turbolenze dei mercati, alcuni osservatori esterni profetizzavano l’imminente tracollo di una potenza dai piedi d’argilla, travolta dalle forze del ‘libero mercato’.

Girava sui social network, in quei giorni, una vignetta che recitava più o meno così: “Prima eravamo in crisi perché la Cina cresceva troppo, ora siamo in crisi perché la Cina cresce troppo poco; è bello che le cose cambino, ogni tanto”. E c’è del vero, in fondo, se la Cina diventa sempre la foglia di fico (bella grande, s’intende) che serve a coprire le crisi altrui.

L’allarme è in seguito rientrato, le pesantissime leve di controllo che il Partito tiene salde in mano hanno fermato l’apocalisse. Ma certo, il “tifone” ha aperto scenari preoccupanti per Xi e per i vertici comunisti, più dal punto di vista politico che economico: mantenere la fiducia della crescente borghesia cinese, e riadattare la struttura istituzionale costruita da Mao e conservata da Deng a un nuovo contesto sociale, è la vera sfida su cui i mandarini rossi si giocano il futuro.

E il futuro della Cina, nel bene o nel male, è un pezzo significativo del futuro di tutti noi, motivo in più per iniziare a considerare Pechino non più una presenza ‘aliena’ ma un protagonista a tempo pieno della politica internazionale. Ciò non significa, naturalmente, chiudere uno o due occhi sulle ombre del Partito-Stato e sugli effetti nefasti, in Asia e non solo, delle crescenti ondate di neo-nazionalismo alla cinese.

Insomma, al di là delle battute di Trump e al di là della retorica dell’amicizia a tutti i costi, al di là dell’orgoglio dell’Occidente, al di là delle (sacrosante) rivendicazioni sui valori universali e al di là delle battaglie combattute in nome della ‘libertà’ e della’democrazia’, il rapporto tra Cina e Usa, così come quello tra Cina ed Europa, non potrà che giocarsi sul filo del realismo.

Per tornare a parlare di candidati alla Casa Bianca, lo sa bene Hillary Clinton, che pure ideò - come si è detto - la strategia asiatica degli Usa. E che oggi evita di agitare lo spauracchio del ‘pericolo giallo’ in campagna elettorale. A tal proposito, gira un divertente aneddoto. Sembra che, mentre l’ex first lady ancora dirigeva il dipartimento di Stato, l’allora premier australiano Kevin Rudd le abbia una volta chiesto: “Perché non siete più duri con la Cina?”. “Non puoi essere troppo duro con la tua banca”, rispose lei.