Salvare i lavoratori, non gli Stati: la strada verso un welfare federale
Settembre/Ottobre 2015 / Monografica
I dati lo dimostrano: a fare le spese della crisi del 2008, e delle diseguaglianze europee sul fronte del welfare, sono stati in prima battuta i lavoratori. Se vogliamo davvero iniziare a parlare di mercato europeo del lavoro, è necessario studiare un modo per introdurre un sussidio europeo di disoccupazione.
Pur colpiti da un terremoto analogo in termini di magnitudo, i mercati del lavoro europeo e americano hanno reagito alla crisi in maniera del tutto diversa. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione ha toccato il picco nel 2010 (9.6%), e si assesta ad oggi intorno al 5%. Nella zona euro il tasso di disoccupazione è più del 10% dal 2010.
Abbiamo sbagliato qualcosa? Sicuramente, anche se non è facile capire che cosa, dal momento che sono tante le variabili che influenzano il mercato del lavoro, oltre alla crescita. Tra gli errori commessi c’è il non aver creato al momento giusto uno stabilizzatore automatico per la zona euro, ovvero un sussidio di disoccupazione in grado di sostenere i consumi nelle economie in crisi, specie in caso di shock asimmetrico, quando è difficile utilizzare gli strumenti di politica monetaria.
Le argomentazioni sia teoriche che empiriche a sostegno di questa idea sono solide. È vero che le regole fiscali adottate all’indomani della crisi sono destinate, nel lungo, lunghissimo, periodo, a creare un margine di manovra per aumentare la spesa pubblica in caso di recessione, risparmiando nei giorni in cui l’economia va bene. Nel frattempo, però, le stesse regole si sono rivelate pro-cicliche invece che anti-cicliche, aggravando nel breve periodo – invece di alleviarli – i danni provocati dalla crisi.
In secondo luogo bisogna constatare che non si può contare solo sul mercato. I fallimenti del mercato in questo campo sono molteplici: in caso di shock sul mercato del lavoro l’aggiustamento deve arrivare o dal lato delle quantità (il numero di lavoratori occupati e disoccupati) o dal lato dei prezzi (cioè i salari). In Europa la prima modalità domina sulla seconda.
C’è la possibilità per i disoccupati di sfruttare la libertà di circolazione in territorio UE, ma sfortunamente soltanto lo 0,3 per cento degl europei si sposta in media ogni anno: 1 milione e mezzo di persone. La cifra è deludente rispetto agli Stati Uniti, dove il flusso è 10 volte più grande. Il risultato è che sono solo 15 milioni i cittadini europei che vivono in un paese diverso da quello di origine, con un trend leggermente in salita in seguito alla recessione ma comunque lontano dall’essere sufficiente a ripristinare l’equilibrio macroeconomico tra i paesi europei. Né la flessibilità del lato dei salari, né la mobilità dei lavoratori possono quindi essere considerati una soluzione in caso di shock asimmetrico.
E le politiche? Si può contare sulle politiche di stabilizzazione nazionali? Non sempre e non del tutto: l’integrazione con i paesi vicini rende la politica economica nazionale meno efficace, dal momento che una parte sarà destinata alle importazioni e non beneficerà in maniera diretta l’economia locale. Questo effetto, detto di spillover, riduce l’incentivo per il governo di un paese a stabilizzare l’economia in maniera appropriata nel corso di una recessione.
È così che la politica fiscale diventa un bene comune europeo, e renderla - almeno in parte - sovranazionale è necessario per raggiungere il livello di spesa ottimale. Non è quindi un caso che tutte le federazioni, dagli Stati Uniti alla Svizzera, siano dotate di un budget federale importante, nell’ordine del 15-20 per cento del Pil, con il quale, oltre alla difesa, vengono finanziate le politiche stabilizzatrici e di welfare. A confronto l’UE, con il suo 1 per cento del Pil, spende solo briciole.
L'unione bancaria e quella dei mercati dei capitali dovrebbero, in teoria, rendere questi shock meno probabili e dovrebbero aiutare a spezzare il circolo vizioso tra default delle banche e default sovrani. Se fosse esistita già prima del 2008, l’unione bancaria avrebbe probabilmente permesso di scrivere una storia diversa per l’Irlanda, che non avrebbe avuto bisogno di trasformare il debito delle banche in debito pubblico per preservare la stabilità sui mercati finanziari, in quanto il compito sarebbe spettato al Single Resolution Fund.
Eppure neanche l’integrazione dei mercati finanziari è sufficiente a garantire che non ci sarà un’altra Grande Recessione o che in caso di shock asimmetrico l’economia reale non soffrirà più del necessario. Questo è dovuto al fatto che l’integrazione finanziaria probabilmente non sarà perfetta neanche con la creazione dell’unione bancaria e dei mercati dei capitali.
Ultimo ma non meno importante tra i buoni motivi per creare un sistema europeo di sussidi di disoccupazione è la solidarietà, tra persone così come tra stati, che resta uno dei valori su cui si poggia l’integrazione europea. Principio messo in ombra dalle discussioni di questi ultimi anni sulla soluzione della “tragedia Greca”, ma che non può essere dimenticato quando si parla di nuovi passi vero una maggiore integrazione.
Se si tratta di trasformare in “federali” le politiche di sostegno al reddito dei disoccupati, il diavolo è più che mai nei dettagli. La creazione di un’indennità di disoccupazione europea deve affrontare molte sfide. Prima di tutto il rischio di moral hazard: sarà forte la tentazione per gli stati membri di rinviare le riforme nel momento in cui la spesa per i disoccupati sarà finanziata da un’altra tasca.
C’è poi da affrontare la questione della ridistribuzione: è impossibile concepire un sistema che stabilizzi le economie senza un minimo di ridistribuzione delle risorse tra le regioni in cui la crescita è fiorente e il rischio di disoccupazione basso, e quelle più lente in cui si concentrano i lavoratori a bassa qualifica. Bisogna quindi scegliere un punto sull’asse “stabilizzazione - redistribuzione” che renda il sistema efficace dal punto di vista economico e accettabile dal punto di vista politico.
Altra domanda: il sistema sovranazionale richiede l'armonizzazione dei sistemi nazionali? E infine: questo può essere fatto nel quadro giuridico attuale?
Due opzioni sono attualmente al vaglio degli esperti. Una consiste nel rendere sovranazionali gli “INPS” nazionali in modo da assicurare una copertura simile per i disoccupati del continente. L’alternativa invece prevede la creazione di un sistema di “assicurazione delle assicurazioni” nazionali che dovrebbe intervenire solo in caso di shock occupazionale severo per contribuire a pagare i sussidi di disoccupazione senza gravare sul bilancio dello stato in questione.
Le due proposte sono concettualmente molto diverse: la prima coprirebbe una piccola parte di tutti gli shock, mentre la seconda una parte rilevante ma solo per le crisi importanti. A leggere il dibattito in chiave più filosofica che economica, si potrebbe guardare alla prima proposta in chiave federalista, mentre alla base della seconda c’è un’idea di Europa unita simile ad una società di mutuo soccorso.
Anche alla luce dei risultati di studi approfonditi sulla materia, la scelta sarà, quindi, inevitabilmente politica.
INDICE Settembre/Ottobre 2015
Editoriale
Monografica
- Eurozona, indietro non si torna
- Tocqueville e gli eurofagi. Intervista a Mario Monti
- Tra concorrenza e armonizzazione fiscale. Un parere amerikano sulla sovranità
- L'unione bancaria, prima di tutto
- Salvare i lavoratori, non gli Stati: la strada verso un welfare federale
- Niente Eurobond senza fiscal compact, e viceversa. La lezione tedesca
- In Europa è tornata la guerra. Si combatte, per ora, a Bruxelles
- Perché occorrerebbe un nuovo Manifesto di Ventotene
- Lo spazio giuridico europeo alla prova dell’emergenza rifugiati
- Difesa europea: è l’inizio di un compromesso?
Istituzioni ed economia
- Europa e Russia, la Cortina di Ferro è tornata
- Meglio plurale che integrata? Le ragioni contrarian di un euroscetticismo liberale
- Il futuro della Cina? Riguarda tutto il mondo