Nell’angolo nordorientale dell’Europa c’è un possibile, anche se ancora poco probabile, rischio di invasione. In questo caso non parliamo di invasione in senso metaforico, da parte degli immigrati, ma di invasione in senso proprio, militare. L’invasore potenziale è nientemeno che la Russia, la prima potenza nucleare del mondo.

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Definire la Russia come una “minaccia” al territorio europeo è tutt’altro che scontato e necessita una spiegazione.

Nel 2005, in una conferenza stampa, il presidente Vladimir Putin arrivò a negare l’esistenza storica di Polonia e Repubbliche Baltiche. Parlando in termini che ricordano quelli del patto Ribbentrop-Molotov (1939) definì tutta la regione baltica come: “territori che la Russia ha dovuto cedere alla Germania nel 1918” e che “la Germania ci ha restituito nel 1939, quando essi si sono uniti all’Unione Sovietica”. Con gran dolore e preoccupazione per i polacchi e i baltici, lo Stato russo ha imposto la riscrittura dei testi storici per riabilitare la figura di Stalin, cancellandone i crimini (20 milioni di morti) e rivalutando la sua politica estera, Ribbentrop-Molotov incluso.

Nello scorso giugno, in linea con questa tendenza, la Duma (camera bassa del parlamento russo) ha impugnato il decreto con cui l’Urss riconobbe l’indipendenza ai paesi baltici nel 1991. Non è possibile sottovalutare questo fattore storico, né interpretare tutte le azioni russe come una reazione alla “espansione della Nato a Est”. Quando le repubbliche ex sovietiche ottennero di essere ammesse nell’Alleanza Atlantica, infatti, i rapporti fra Mosca e Washington erano ancora idilliaci, caratterizzati dalla cooperazione anti-terrorismo del dopo 11 settembre. Nel 2002, due anni prima dell’accesso dei paesi baltici nell’Alleanza, l’allora ministro degli Esteri russo Sergej Ivanov dichiarò che la Russia “non aveva paura” della presenza della Nato nel Baltico.

Da allora ad oggi è cambiato tutto. E il principale fattore di cambiamento è interno alla Russia: la sua uscita definitiva dalle sacche della crisi economica e la conseguente rinascita di un orgoglio ideologico grande-russo, covato fin dal crollo dell’Urss negli ambienti nazionalisti, ma mai reso esplicito fino alla metà degli anni 2000.

Il primo episodio di tensione vera fra Russia ed Estonia avvenne nel 2007: quando il governo estone decise di trasferire un monumento dedicato ai caduti sovietici da un luogo all’altro di Tallinn, dalla Russia si rispose con un gigantesco attacco hacker contro le istituzioni politiche ed economiche del piccolo paese. Quella combattuta nel Baltico e lungo i confini insanguinati dell’ex Urss è iniziata come una battaglia ideologica sulla memoria storica, e continua ad esserlo.

In Ucraina i manifestanti filo-occidentali abbattevano le statue di Lenin, quelli pro-russi le difendevano con catene umane. Ma non è solo una battaglia sui simboli: in Russia è partita una campagna revisionista che non vuole solo riscrivere la storia, ma addirittura ridisegnare le frontiere, in chiave nazionalista. Tutti i paesi che ospitano forti minoranze russe, Estonia e Lettonia comprese, rischiano ingerenze di Mosca a “protezione” dei connazionali.

Dopo la guerra in Georgia del 2008, rimasta “congelata” da allora, l’opinione pubblica occidentale si è risvegliata nel marzo del 2014 con l’allarme di una nuova invasione: l’occupazione russa della Crimea, anch’essa territorio “storico” della Russia. Si è trattato della prima vera e propria violazione di un confine europeo da parte di una grande potenza militare. Mosca, che con la firma del memorandum di Budapest del 1994 si era fatta garante dell’inviolabilità delle frontiere ucraine, non ha rispettato la sua promessa. Lettonia ed Estonia temono di fare la stessa fine.

Gli episodi di provocazione russa contro la Nato si sprecano: grandi manovre “Zapad” (Occidente), con masse di decine di migliaia di uomini, con armi nucleari (2009) e senza (2013 e 2015); minacce ai paesi che dovessero ospitare lo scudo anti-missile della Nato (2010 e 2014); dichiarazioni disinvolte sull’eventuale uso delle armi nucleari (l’ultima risale al 18 marzo scorso, per bocca del presidente Putin), ritiro della Russia dal Trattato sulle Forze Convenzionali (annunciato nel 2007, completato nel 2015).

Negli ultimi due anni, per centinaia di volte, l’aviazione russa ha provocato le difese della Nato nel Baltico, sfiorando lo spazio aereo di Estonia, Lettonia e Lituania e talvolta entrandoci, come denunciato dal segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg. Nel settembre 2014, forze speciali russe sono addirittura penetrate in territorio estone per rapire l’ufficiale di polizia Eston Kohver, ora condannato per spionaggio dopo un processo a porte chiuse.

A questi crescenti segnali di ostilità, la Nato ha reagito con estrema prudenza. Non è mai esistito alcun piano di contingenza per far fronte a una minaccia russa, almeno fino a tutto il 2008. L’Alleanza ha rispettato alla lettera l’Atto di Fondazione (delle relazioni di cooperazione e sicurezza) firmato a Parigi nel 1997: non ha mai schierato armi nucleari né forti contingenti internazionali nei territori dei nuovi membri della Nato, paesi baltici inclusi.

Solo nel 2009 è stato elaborato un primo piano di difesa (“Eagle Guardian”), quasi subito compromesso da Wikileaks che ne ha rivelato l’esistenza online. E solo nel 2013 la Nato ha compiuto le sue prime vere manovre nel Baltico, le “Steadfast Jazz”. Ma ancora nel marzo 2014, subito dopo l’occupazione russa della Crimea, il generale Riho Terras, capo di Stato Maggiore della forze armate estoni, riteneva impossibile far giungere in tempo rinforzi e munizioni, in caso di aggressione russa al suo paese. La Lituania, dal 2015, ha reintrodotto la leva militare obbligatoria. Estonia e Lettonia, però, non possono permettersi una politica analoga con altrettanta facilità, a causa delle forti minoranze russofone.

Il quadro peggiora ulteriormente, se vi inseriamo anche le neutrali Finlandia e Svezia. Secondo esperti militari finlandesi, sia le manovre “Zapad” del 2013 che quelle del 2015 potrebbero riguardare operazioni offensive anche contro le isole Aland (Finlandia) e Gotland (Svezia), cioè le porte d’accesso marittime alle repubbliche baltiche. I russi mantengono un alto livello di militarizzazione del loro fianco settentrionale, riattivando basi navali e aeree finora inutilizzate nella penisola di Kola, esercitandosi a operazioni in climi e ambienti artici, predisponendo depositi di materiale pesante per ospitare almeno 6 brigate lungo il confine finlandese. Se un’eventuale guerra nel Baltico dovesse coinvolgere anche la Norvegia (parte della Nato), Finlandia e Svezia (membri dell’Ue, ma neutrali), il coordinamento delle forze dell’Alleanza verrebbe ulteriormente complicato.

Nell’aprile del 2014 la Nato ha potenziato la missione di pattugliamento aereo nel Baltico, ma stiamo parlando di 16 aerei in tutto, forniti a rotazione dai vari membri dell’Alleanza. Adesso il contingente è ridotto ad appena 8 aerei: 4 ungheresi e 4 tedeschi. Solo quest’anno si è deciso di costituire nei paesi baltici depositi di materiale pesante pre-posizionato, per accelerare l’arrivo di rinforzi. Ma per non più di 5mila uomini, praticamente nulla di fronte agli almeno 80mila che i russi potrebbero schierare su quel fronte, in caso di crisi.

La lentezza e la prudenza con cui la Nato rafforza il suo fianco orientale con il minimo indispensabile non sono motivate solo dalla crisi economica, che ha imposto tagli ingenti alle spese di difesa. La ragione è anche politica. La difficoltà maggiore è capire che la Russia è cambiata in questi dieci anni. E soprattutto che è finito il lungo periodo di sollievo seguito alla caduta del Muro di Berlino. È difficile ammetterlo, specie per chi, negli ultimi venticinque anni, ha investito molto nei rapporti con Mosca, ma la Cortina di Ferro è tornata. Negare l’evidenza non garantisce certo un futuro di pace. Prepararsi concretamente alla guerra, come la Nato ha fatto ininterrottamente dal 1949 al 1989, potrebbe invece servire a mantenerla fredda.