Dopo decenni vissuti da protagonista assoluto dei rapporti tra Asia e Occidente, il Giappone in crisi economica e sociale è oggi relegato al ruolo di comprimario e si trova a un bivio: venire a patti con lo strapotere cinese o provare a riaccreditarsi come unico interlocutore credibile?

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Nel 1971, all'annuncio che il presidente americano Richard Nixon l'anno seguente avrebbe visitato la Repubblica Popolare Cinese, a poco più di due decenni dal rifiuto di riconoscere il regime di Pechino come legittimo rappresentante della "Cina" (sostenendo invece il governo nazionalista di Taiwan), lo shock "realista" investì Tokyo più di ogni altra capitale.

Fino ad allora, dopo essere stato piegato dagli Stati Uniti al termine della sua folle avventura militarista, il Giappone si era presentato al mondo come il baluardo dell'Occidente in Asia. Una forza di contenimento attorno alla Cina rossa, addirittura - avrebbe detto il premier nipponico Nakasone più tardi, negli anni di Reagan - una "portaerei" nel Pacifico a guardia del pericolo comunista.

La memoria recente dell'aggressione giapponese all'ex Impero di Mezzo durante la seconda guerra mondiale - con il massacro di Nanchino, ancora oggi commemorato in Cina come una delle pagine più atroci dell'invasione subita - rendeva difficile, alla radice, un qualsiasi "polo asiatico" che bilanciasse il nuovo ordine mondiale. L'ingresso del Giappone nel sistema euro-atlantico e la sua progressiva "occidentalizzazione" (più di facciata che di sostanza, a dire il vero) fecero il resto, legando l'arcipelago a una comunità economica e politica costruita attorno a Washington.

Certamente, quell'avvio di riavvicinamento fra Usa e Cina (il riconoscimento ufficiale sarebbe arrivato solo nel 1978, dopo la morte di Mao e l'avvio della stagione di Deng Xiaoping) non significò la crisi né l'isolamento del Giappone. Gli anni settanta e ottanta segnano anzi l'emergere del "modello giapponese" a livello globale: i suoi turisti invadono il mondo, il sushi diventa il cibo dei giovani rampanti, le auto nipponiche sommergono il mercato, e la cultura popolare (adolescenziale, in particolare) diffonde presso un'intera generazione l'estetica dei manga e degli anime.

"Il Giappone - osserva Pietro Ginefra, per anni capo della delegazione di Banca d'Italia a Tokyo - è stato il primo paese asiatico a cogliere tutte le opportunità offerte dagli equilibri geo-politici sostenuti dalla leadership americana nel Pacifico. La capacità di incorporare la tecnologia americana ed europea e di introdurla nei beni di consumo di massa, unita a un'elevata capacità di accumulazione di capitale, ha portato il Giappone a diventare, negli anni '80, un temibile concorrente per gli altri paesi del G-7".

Col passare del tempo, e per una serie di fattori interni oltre che esterni - una politica dell'immigrazione troppo rigida, una limitatezza ambientale di risorse, un sistema sociale stabile ma eccessivamente ingessato, un sistema politico poco propenso al cambiamento e all'accoglimento di spinte esterne - il "sogno giapponese" è andato via via sbiadendo: "La perdita di competitività che le imprese giapponesi hanno registrato in seguito alla rivalutazione dello yen sul dollaro americano dopo l'Accordo del Plaza, nonché l'esaurimento del processo di catching-up tecnologico - prosegue Ginefra - hanno determinato un rallentamento della crescita giapponese tra il 1990 e il 2000, il tristemente famoso decennio perduto".

E difatti negli anni Duemila, dopo un lento (ma accuratamente pianificato) risveglio, un'altra potenza asiatica ha iniziato a imporsi sulla scena mondiale. Chi vuole fare affari oggi corteggia, più che i giapponesi, i cinesi. I quali, peraltro, sono ben lieti di acquisire il controllo - diretto o indiretto - su pezzi sempre più consistenti del sistema produttivo delle cosiddette potenze occidentali.

Così il Giappone si trova a dover affrontare sfide esterne e debolezze interne: si tratta di aspetti strutturali relativi all'invecchiamento della popolazione, alla sostenibilità del debito pubblico e alla capacità di innovazione tecnologica, di processo e di prodotto che possa consentire a un paese avanzato di sostenere la concorrenza dei paesi emergenti.

Il governo Abe - con quella che è stata ribattezzata Abenomics - ha utilizzato "tutti gli strumenti di politica monetaria e fiscale per sostenere la domanda aggregata", sottolinea ancora Ginefra. E "Governo e Banca del Giappone hanno fornito al sistema la liquidità per i finanziare i progetti". Ma "adesso spetta alle imprese utilizzare i capitali di rischio per realizzarli; e, purtroppo, il capitale di rischio e i progetti imprenditoriali non possono essere creati per decreto legge".

Pesa, in questo contesto, l'offensiva con cui Pechino ha costituito la Aiib, Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali, cui hanno aderito 57 paesi (dalla Svizzera all'India, dal Vietnam all'Italia, dall'Australia alla Russia), ma non Stati Uniti e Giappone. Una novità che segna la volontà cinese di imporsi come una nuova potenza regionale dotata di ramificazioni globali, sfruttando cinicamente anche - ed è questo un elemento che è sempre più spunto di riflessione critica, in Giappone - le memorie dell'imperialismo nipponico novecentesco, che tante ferite ha lasciato nel Sud-est asiatico.

Una scelta comprensibile, quella del no giapponese, e resa quasi inevitabile dalle tensioni che sono tornate a soffiare tra Tokyo e Pechino soprattutto da quando nelle rispettive cabine di comando si sono accomodati Xi Jinping e Shinzo Abe, entrambi convinti che la chiave per tenere insieme i rispettivi paesi sia il ricorso al più classico dei "nazionalismi". Così la bussola di Abe reagisce orientandosi ancora di più a Ovest: non è un caso che a maggio 2014, a Bruxelles, in occasione del summit con l'Unione europea, si sia ribadito l'impegno di arrivare a un accordo di libero scambio con il Vecchio continente, strategia complementare alla Trans-Pacific Partnership in via di definizione con gli Usa.

E se il Giappone "torna" a pensarsi occidentale, l'America sembra propensa a un ribilanciamento del proprio ruolo e del proprio atteggiamento in Asia. Nella recente e lunga visita di Abe negli Stati Uniti, durante la quale c'è stata la firma delle nuove "linee-guida" della cooperazione tra i due paesi, il premier giapponese ha toccato con mano come Washington senta ormai quotidianamente la necessità di un Giappone forte e solido in una regione sempre più difficile.

Eppure non manca chi, quasi a voler omaggiare Nixon e Kissinger, propone al Giappone di sparigliare le carte e di entrare nella Aiib. Ne scriveva a fine aprile Yoichi Funabashi, direttore del think tank di Tokyo "Rebuild Japan Initiative Foundation", in un articolo apparso sul New York Times con un titolo tanto esplicito quanto provocatorio: "Japan Must Join China's Bank". "The case for Japan joining the A.I.I.B. - scrive l'autore - is simple and strong. By distributing financial assistance to states in the Asia-Pacific, the bank will inevitably help shape the region's future economic architecture, as well as, implicitly, its security relations. Japan has a major strategic interest in participating".

Il dibattito è appena aperto, ma appare già chiaro che la sfida per la primazia regionale in Asia - oltre ad avere importanti ripercussioni globali - imporrà nei prossimi anni decisioni difficili a tutti, a partire da un Giappone di nuovo alla ricerca di sé.