Antichi tracciati per nuove ambizioni: ecco l'impresa che la Cina contemporanea ha iniziato da qualche anno, e che contribuirà a ridisegnare l'economia mondiale.

Brusadelli banconota grande

Quando Xi Jinping è asceso ai vertici della Repubblica Popolare Cinese - succedendo a Hu Jintao dopo una contesa che pare abbia scosso, dietro i paraventi del potere, il cuore del Partito comunista - in pochi, in patria e fuori, avrebbero potuto anticipare con certezza le "linee guida" che avrebbero segnato la sua leadership. Due anni dopo, il quadro inizia a farsi più nitido, e "l'era Xi" comincia ad assumere contorni ideologici (e politici) assai più precisi.

La lotta spietata alla corruzione dei "quadri" (contro le tigri e contro le mosche), con arresti e decapitazioni eccellenti. Le riforme approvate per rendere ancora più efficiente il controllo centrale sullo sviluppo socio-economico cinese (e non certo per rilassarlo, o per aprirlo a vènti liberal-democratici, come sognato da qualche osservatore esterno) e la fermezza riaffermata nei confronti dei "separatisti" di ogni tendenza. Il pieno recupero del passato classico e imperiale, condotto senza più omaggi all'ormai cestinato anti-tradizionalismo maoista.

Con esso, la retorica del "sogno cinese", slogan di un nuovo nazionalismo che è (come spiega bene lo storico Kai Vogelsang nel suo recente volume "Cina. Una storia millenaria", Einaudi) il prevedibile strumento usato per tenere insieme un paese in cui una crescita vertiginosa ha aperto e sta aprendo divari e fratture che gli arnesi ideologici del "comunismo" non riescono più a sanare. E, di conseguenza, una maggior presenza della RPC sulla scena globale, a partire dalle rivendicazioni nei mari d'Asia, compiute più per ribadire il proprio status di potenza regionale agli occhi del mondo che per reali obiettivi territoriali.

Tra tutte queste ambizioni, ce n'è una che sembra riassumerle tutte: si tratta di un progetto da quaranta miliardi di dollari (per ora), lanciato da Xi durante una visita in Kazakhistan, con il nome evocativo, dal sapore imperiale, di "nuove vie della seta". Due cinture infrastrutturali - una via terrestre, a nord, e una via marittima, a sud - che dovrebbero connettere le due estremità dell'Eurasia.

La prima partirebbe dalla Cina occidentale, rivitalizzando così una regione da sempre in ritardo rispetto alle ben più ricche zone costiere, e si spingerebbe poi in Asia centrale attraverso le Repubbliche ex sovietiche, solidificando un rapporto che a Pechino viene considerato di fondamentale importanza per ragioni strategiche ed energetiche (e che al Cremlino desta crescenti preoccupazioni, peraltro); infine, superate la Turchia e la Germania, il tracciato si chiuderebbe a Venezia, la celebrata patria di Marco Polo.

La seconda, muovendosi dalle province del Sud, toccherebbe le coste del Vietnam, dell'Indonesia, dello Sri Lanka, del Kenya (lì, nel continente africano troppo a lungo trascurato dalle potenze occidentali, in cui l'ex Impero ha riversato un decennio di investimenti economici, politici e culturali imponenti). Infine, prima di concludersi anch'essa nella nostra città lagunare, transiterebbe in Grecia, nel porto del Pireo.

Qui, nel 2008, la cinese Cosco - gigante statale dei trasporti marittimi - ha investito più di quattro miliardi di euro per l'utilizzo trentennale di due terminal: da allora il numero di container è quadruplicato, tanto da spingere alcuni commentatori a considerare la via della Seta un'ancora di salvezza per un paese in profonda crisi. E mentre, nella sua visita ad Atene lo scorso anno, il premier cinese Li Keqiang ha definito le economie dei due paesi addirittura "complementari", auspicando un'accelerazione greca nella costruzione di nuove infrastrutture e nelle privatizzazioni, le ritrosie di Syriza a vendere asset statali potrebbero spingere i cinesi - come ha osservato di recente Yannis Palaiologos su Politico.eu - a cercare sbocchi alternativi (e questo valga anche come ironico monito a chi ancora liquida la Cina come un paese semplicemente "comunista").

Il sogno cinese è fatto di sonanti quattrini, in sostanza. Come quelli promessi da Xi Jinping al Pakistan - alleato chiave nella competizione asiatica con il gigante indiano - per costruire ponti, strade e dighe (a partire da quella di Karot, nel Punjab, che costerà un miliardo e mezzo di dollari finanziati dal Fondo Via della Seta). Come quelli che raccoglierà e metterà sul piatto la Aiib (Asian Infrasctructure Investment Bank), la "sfida" cinese all'ordine economico globale made in Usa cui a ottobre scorso hanno aderito, dopo il "sì" della Gran Bretagna, alcuni dei maggiori paesi europei tra cui l'Italia.

Insomma l'avanzata cinese non pare fermarsi. L'iniziativa "yi lu yi dai" (one belt one road), è ormai il quadro generale che la Cina utilizza per organizzare i suoi rapporti globali, dalla Scozia alla Thailandia (con cui da poco è stato concluso un accordo per la realizzazione di nuove tracce ferroviarie), dall'Arabia Saudita alla Russia.

E lo scetticismo iniziale con cui gli Stati Uniti hanno osservato i proclami dei nuovi mandarini di Pechino, considerando la via della seta e la banca asiatica progetti pieni più di retorica che di sostanza, appare la risposta miope a una potenza che ha scelto di assumere il ruolo che i fatti, anno dopo anno, le hanno reso naturale ricoprire. Dopo anni passati alla finestra, in attesa che i numeri e i volumi economici rendessero il paese de facto una potenza, senza bisogno di farsi annunciare in scena.

Oltre a essere un inequivocabile simbolo dei sogni imperiali di Xi, insomma, la strategia della "via della seta" come infrastruttura portante della proiezione globale cinese è una testimonianza di quel che spiega bene il filosofo François Jullien a proposito del concetto di "efficacia" in Cina: agire con pazienza, e senza visibili strappi, finché i risultati non paiono maturare da sé, quasi senza sforzo.

"Un sasso dopo l'altro, attraversare il fiume", pare fosse il motto di Deng Xiaoping. Un passo dopo l'altro, attraversare il mondo, penserà Xi davanti ai tracciati delle vie carovaniere del terzo millennio.