Non basta un buon sistema di voto per fare una buona politica. È una vecchia illusione, che l'approvazione dell'Italicum rinnova. Se nell'ultimo ventennio l'output degli eletti è stato scadente, l'input degli elettori non è stato migliore. A pesare sono ragioni profonde di cultura politica, non problemi di meccanica istituzionale.

Palma Montecitorio

L'approvazione della nuova legge elettorale, che, malgrado le violente polemiche, è stata salutata con favore da larga parte dell'opinione pubblica, ha rinnovato la speranza che da una migliore efficienza istituzionale, ottenuta combinando l'Italicum e la fine prossima ventura del bicameralismo paritario, discenda una maggiore efficienza anche nell'attività di governo.

Da almeno vent'anni, fin dall'inizio della stagione referendaria, avviata non a caso in concomitanza con il duplice default politico e finanziario della cosiddetta Repubblica dei partiti, gli italiani coltivano l'illusione che la qualità delle leggi elettorali migliori di per sé la qualità della politica e delle sue decisioni. Su questa base, hanno legato a formule "costrittive" e, secondo logiche molto diverse, maggioritarie, tutte le molte e diverse riforme della legislazione elettorale introdotte da allora sul piano nazionale e locale, accomunate dall'obiettivo di garantire maggioranze certe a governi forti di una legittimazione sostanzialmente diretta.

La disintermediazione dei processi politici, con l'indebolimento del ruolo dei partiti e l'accentuata presidenzializzazione della competizione per il governo, legata a leadership carismatiche - si tratta di fenomeni caratteristici di tutta la politica contemporanea - in Italia ha avuto caratteristiche particolarmente radicali, al punto che, per quasi un ventennio, l'intero sistema politico è stato di fatto una mera emanazione di leadership "fondative" (a partire da quella di Berlusconi e di Prodi, per giungere al fenomeno Grillo) e la discussione politica ha assunto ovunque, con differenze di grado, ma non di natura, una connotazione marcatamente anti-politica.

Queste tensioni si sono scaricate sulle leggi elettorali mischiando istanze confuse - sia in ordine ai problemi di rappresentatività che a quelli di governabilità - e imprescindibili esigenze di tenuta del sistema democratico, con il risultato di generare di volta in volta soluzioni teoricamente "miracolose", in grado a un tempo di restituire lo scettro ai cittadini elettori e di conferire un effettivo potere di governo ai leader consacrati dal voto popolare.

A distanza di anni, possiamo misurare la considerevole distanza tra le aspettative e i risultati. Sul piano locale, sindaci e governatori eletti direttamente e ulteriormente legittimati dalla retorica federalista hanno esercitato un potere incontrastato in modo tutt'altro che responsabile - basterebbe esaminare l'andamento della spesa pubblica di comuni e regioni per averne conferma. Sul piano nazionale, sia il centro-destra che il centro-sinistra, malgrado leggi elettorali - prima il Mattarellum, poi il Porcellum - in grado di consegnare loro ampie maggioranze (ci sono state eccezioni, ma pur sempre di eccezioni si è trattato), hanno completamente fallito la scommessa del governo e consegnato al governo Monti un'Italia in condizioni non certo migliori di quelle in cui, all'inizio degli anni '90, la Prima Repubblica morente l'aveva sbolognata ai governi tecnici di Amato e di Ciampi.

Le polemiche sulla presunta antidemocraticità dell'Italicum, che per tutti i vincoli politici e giuridici cui era sottoposta - sentenza della Corte Costituzionale compresa - non può certo considerarsi così anomala e mostruosa come vorrebbero i suoi critici, rischiano però di portare (per l'ennesima volta) sul binario sbagliato la riflessione sulle ragioni della conclamata inefficienza delle istituzioni politiche italiane e sui possibili rimedi.

Ci si continua a concentrare sul rapporto tra la forma del sistema elettorale e i processi di decisione politica, come se tutto in esso rispondesse a ragioni di meccanica istituzionale. Ma proprio la storia degli ultimi due decenni smentisce questa tesi, che deve il proprio clamoroso e immeritato successo proprio al fatto di suonare particolarmente assolutoria non tanto rispetto alle responsabilità delle forze politiche, quanto a quelle degli elettori. Se è vero, infatti, che negli ultimi vent'anni l'offerta dei partiti ha risentito delle condizioni di gioco, cioè dei sistemi di voto, è vero anche che ha innanzitutto riflettuto, in modo tutto sommato fedele, le caratteristiche di una domanda politica - quella degli elettori, dell'opinione pubblica e anche delle élites più influenti - più intenzionata a resistere alle riforme manifestamente necessarie per invertire la rotta del declino economico e civile, che disponibile a discutere sull'equità del prezzo che ciascuno avrebbe dovuto pagare per sostenerle.

Se su tutti i grandi dossier politicamente sensibili i governi "eletti direttamente dagli elettori" hanno traccheggiato e rinviato a tempi migliori il redde rationem, questo ritardo non solo può, ma deve essere addebitato alla natura del patto democratico da essi implicitamente o esplicitamente sottoscritto con gli elettori. La tabella dei ritardi dei primi fotografa alla perfezione la mappa delle indisponibilità dei secondi, così come tutte le più drammatiche emergenze con cui l'Italia deve continuare a fare i conti - paradigmaticamente: la questione previdenziale - appartengono all'autobiografia politico-culturale della nazione, non solo all'armadio degli scheletri della cosiddetta "politica".

D'altra parte, se l'output delle istituzioni è stato così scadente, pretendere che non abbia alcuna relazione con la qualità dell'input degli elettori significa, né più né meno, affermare che la volontà democratica in questi vent'anni è stata usurpata con la violenza dai rappresentanti abusivi e illegittimi del voto popolare. Tutto sommato, anche la polemica ricorrente contro la Casta - metafora colpevolizzante e quindi auto-assolutoria dallo strepitoso successo - più che a esprimere l'indignazione per il malaffare dei politici, serve a dissociare la responsabilità degli elettori da quella degli eletti e a giustificare una rappresentazione altrettanto dissociata di una storia politica, in cui il potere ha spesso divorziato spericolatamente dalla realtà, ma mai davvero dal "popolo".

In questo, prima che nei saldi di finanza pubblica, l'Italia è davvero più simile alla Grecia che alla Germania, e come la Grecia incline a rifugiarsi nella rimozione vittimistica dei traumi dolorosamente subiti. Da un certo punto di vista, l'esperienza del governo in carica, capace di rotture importanti - su tutte, quella dell'articolo 18 - senza innescare crisi di rigetto, né subire crolli negli indici di popolarità o nelle intenzioni di voto, dimostra che cambiare e far digerire politicamente i cambiamenti più radicali non è affatto impossibile.

Da un altro punto di vista, il favore di cui gode l'esecutivo non può occultare il dato rappresentato dal fatto che l'Italia è il solo stato fondatore dell'Ue in cui il "voto contro" (anti-politico, anti-europeo, anti-tutto), che appunto protesta la piena innocenza del popolo rispetto ai guai in cui siamo capitati, raccoglie il voto di più di un elettore su due, senza considerare gli astenuti. L'antipolitica in Italia è maggioranza politica. Una maggioranza divisa, incoalizzabile e irrilevante, ma una maggioranza.

Per avere una politica tedesca, o inglese - per citare due paesi che negli ultimi decenni in Europa sono stati protagonisti delle più formidabili rimonte e delle più radicali riforme - non basta e forse neppure serve un sistema elettorale uguale al loro, ma forse servirebbe avere elettori non così diversi dai loro. Ora che abbiamo dunque cambiato la legge elettorale, dovremmo sperare che per amore o per forza, per virtù o necessità, per resipiscenza o incantamento di trascinanti leadership riformiste, cambino anche gli elettori.

Per il momento, le poche riforme approvate di traverso o di straforo, e subito minacciate da un paradossale effetto rimbalzo, dimostrano che la vera scommessa sta lì, così come, una volta fatta l'Italia, stava nel fare finalmente anche gli italiani.