Cina Mao coronavirus grande

Caveat: malgrado il titolo possa depistare, non stiamo parlando dell'ennesimo Dpcm del Governo sul Coronavirus, annunciato ieri da un rullare di tamburi per tutto il tardo pomeriggio, e poi risoltosi nella semplice (e ragionevole) estensione delle misure previste per la cosiddetta zona arancione a tutto il territorio nazionale. Stiamo parlando di un rumore di fondo che accompagna la discussione pubblica da settimane e che intossica la vita istituzionale, proprio mentre questa deve prendere le decisioni più difficili e le più sospettabili, anche a torto, di essere di stampo "cinese". Infatti, in maniera sempre più scoperta e rivendicata, medici, scienziati, cattedratici e opinion leader di diversa genia e provenienza sono pronti a dire che bisognava prima – e quindi bisognerà a maggior ragione dopo – “fare come la Cina.

Dobbiamo cioè chiudere tutto e mettere in quarantena coatta tutte le attività economiche, decine o centinaia di milioni di persone, da quel momento in poi non più sottoposte alla legge, fosse pure d’emergenza, e alla ponderazione complicata dei costi e dei benefici della strategia di contenimento del contagio, ma consegnate mani e piedi ai pieni poteri di un regime – come lo facciamo questo regime? Proposte costituzionali, ne abbiamo? – che chiude quel che vuole chiudere e spara a chi non se ne vuole stare chiuso. Perchè questa è stata la via cinese: la scelta di anteporre unilateralmente l’obiettivo di stroncare la circolazione del contagio da Coronavirus a qualunque altro obiettivo di salute pubblica e privata, a qualunque altra considerazione politica diversa da quella di garantire, agli occhi del mondo, che il regime tornava “in controllo” sul problema che il regime stesso aveva contribuito a creare.

Il “modello cinese” è quello per cui il potere per ridurre al massimo i contagi e i morti da Coronavirus può permettersi di aumentare al massimo quelli di fame, di stenti, di malattia, che ovviamente non pesano nel conto perché non appartengono alla nuova peste globale. Ma noi – italiani, tedeschi, francesi, statunitensi e lato sensu democratici – non possiamo pensare a politiche pubbliche (e non solo a politiche di salute pubblica), in cui i numeri rilevanti siano solo il denominatore e il numeratore di Covid-19, i contagiati e i morti, e non anche tutti gli altri cittadini malati o sani, collaborativi o non collaborativi la cui vita, salute, sussistenza deve entrare nel calcolo: non perché “noi” a differenza dei cinesi siamo viziati dalla democrazia, ma perché questa uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (e anche davanti alle leggi di emergenza) è la “nostra” legge.

E si badi: la democrazia non esclude neppure, ovviamente, che si applichino misure severe e restrittive, quarantene generalizzate, chiusure prolungate di attività economiche, ma sulla base di un calcolo e di una modalità di discussione pubblica che non può partire e arrivare solo al numeratore e al denominatore di cui sopra, ma deve tenere in conto tutte le variabili, a partire dalla fornitura dei beni e di diritti di prima necessità – cibo, medicine, presidi sanitari, servizi essenziali, libertà di parola e garanzia di una giustizia indipendente – a una popolazione, che non può essere trattata solo come oggetto di un’esercitazione socio-sanitaria “di regime”.

Il decreto del Governo di ieri sera e quelli precedenti, malgrado il Conte II sia per definzione un esecutivo unfit, sembra provare a fare questa ponderazione, non "chiude tutto", ma un po' didascaliscamente sembra chiudere al ludico per tenere in piedi l'essenziale - 22 milioni di italiani che ogni giorno vanno a lavorare, raramente in modalità smart - sacrificando quella parte di ludico (ristorazione, sport, cultura, intrattenimento..) che pure fa Pil e quindi reddito. Sarebbe il caso che il Governo si preoccupasse anche di disciplinare gli applicativi della sua decisione, per evitare che camion di merci in viaggio finiscano nel limbo delle interpretazioni poliziesche, come già succede in Lombardia, però non siamo almeno nominalmente alla via cinese (e sarebbe il caso che non ci si arrivasse in via pratica, dopo averla esclusa in via teorica). 

Infatti, nella valutazione costi benefici, tecnicamente difficile e moralmente terribile, bisogna porsi anche responsabilmente il costo degli effetti intertemporali delle strategie di contenimento, che come tutte le politiche pubbliche, anche in campo sanitario, possono garantire obiettivi di breve termine e rendere più complesso il conseguimento di obiettivi di medio e lungo termine. Visto che la mortalità della popolazione non risponde solo alla diffusione delle malattie, ma anche a variabili non direttamente sanitarie: prodotto e reddito nazionale, istruzione, “salute” del bilancio pubblico, sarebbe il caso che i propugnatori della via cinese anche su questo punto dessero qualche numero – che si guardano bene dal fornire – sulla sostenibilità del “fare come a Wuhan”. Qualche scenario che non sia: poi vediamo, qualcuno provvederà…

Purtroppo la leggerezza con cui la classe politica e la società italiana ha affrontato il tema dei rischi evitabili ha reso paradossalmente credibile l’idea che la sola alternativa sensata fosse tra il “fare come se niente fosse” o il “fare come la Cina”, al cui "fare come se niente fosse" paradossalmente si deve l’origine del contagio, anche in Italia.

Per molti versi l’irresistibile attrazione verso l’uomo forte e la fiducia nell’efficienza dei pieni poteri che appartiene all’immaginario politico italiano – anche a quello nominalmente democratico – è l’altra faccia della medaglia della formidabile irresponsabilità con cui individualmente milioni di italiani ritengono di non dovere cooperare con decisioni e indicazioni provenienti da istituzioni impersonali, senza scettro e senza manganello. La stessa sfiducia nella “razionalità democratica”, lo stesso retaggio di sudditanza, lo stesso “fascismo passivo” che è una sindrome endemica della nostra politica.

@carmelopalma