Troppi alibi, troppo rumore. Perché non parliamo più di PMI? Ci siamo dimenticati delle imprese, di chi produce, di chi fa fatica a costruire un progetto e lo difende con tutta la forza che ha.

Panato grande

In questi anni ci aspetta una sfida importante: far crescere le competenze e la dimensione delle nostre imprese. Aprire orizzonti geografici e culturali è ormai condizione indispensabile alla loro sopravvivenza. Certo la strada è in salita e si continuano a contare i fallimenti di chi non c'è riuscito. La soluzione però è credere nelle imprese, aiutarle, sostenerle, liberarle dai mille vincoli burocratici che tolgono soldi e tempo. Oggi i costi della burocrazia rubano risorse al progetto imprenditoriale ed al futuro. Senza semplificazioni e certezza del diritto possiamo scordarci delle imprese e di attrarre nuovi investimenti.

Questo Paese proprio non riesce ad immaginarsi diverso, a credere in se stesso e nelle sue potenzialità, ad avere il coraggio di rialzarsi. Per provare a cambiare ci raccontiamo storie, in parte consolatorie, che non rappresentano né ciò che siamo né ciò che vorremmo essere. L'Italia del miracolo economico ritrovava sé stessa sognando l'America: sognavamo il frigo, la pelliccia e il macchinone americano ed abbiamo creato la dolce vita, la 500, la vespa e "Vacanze romane". Il sogno si declinava in una realtà un po' provinciale, ma che aveva la forza straordinaria di diventare a sua volta sogno per altri. Oggi quella capacità di sognare, o se preferite quella capacità di definire una visione di Paese ci è preclusa da una burocrazia che rende tutto difficile. Il sogno, invece, è figlio della libertà e della semplicità.

Questa è l'Italia dei regimi speciali e delle deroghe eterne, che sogna la California e le sue startup ma non riesce a riformare in maniera coerente il regime dei minimi. Non riusciamo a comprendere che è inutile creare una normativa di vantaggio se poi dimentichiamo gli elementi fondamentali per favorire lo sviluppo delle imprese: lotta alla criminalità, fisco equo, semplificazioni e certezza del diritto. Sono però battaglie complicate, quindi uno Stato pigro e ruffiano preferisce vincere piccole ed inutili risse di quartiere. L'innovazione non nasce solo da qualche agevolazione fiscale, nasce soprattutto da Università, da centri di ricerca, da multinazionali che investono, da aziende che fungono da incubatori per i propri dipendenti.

Il nostro è ancora un Paese manifatturiero e non possiamo permetterci il lusso di abbandonare o dimenticare chi produce. È lì che si tutelano o si creano posti di lavoro. Per evitare equivoci non parlo di incentivi, non parlo di strutture a sostegno, ma di lasciare l'imprenditore libero di fare impresa: meno burocrazia, leggi più stabili, magari, quello sì, riducendo il costo del lavoro e le tasse.

Crediamo seriamente che qualcuno sia incentivato ad investire in Italia finché saranno tollerate sentenze come quella sulla Robin Tax in cui le esigenze di gettito sono considerate più rilevanti delle questioni di diritto? Sentenze che consentiranno al legislatore di promulgare leggi incostituzionali per fare cassa, certo della tolleranza della Corte? Siamo certi che la costante confusione fiscale possa portare sviluppo e progresso? Sia chiaro, non parlo (dovrei ma per carità di Patria mi taccio) del livello ormai inaccettabile di imposizione, parlo della mole e della complessità degli adempimenti.

Oggi potremmo cavalcare la tecnologia e la fatturazione elettronica consentendo maggiori controlli ed una semplificazione sostanziale degli adempimenti, anche contabili. Preferiamo invece subire l'innovazione senza indicare con forza una direzione modernizzatrice per tutto il sistema. La tecnologia oggi potrebbe consentire facilmente una contabilità semiautomatizzata (fatture elettroniche e flussi bancari immediatamente recepiti in contabilità) che porterebbe una riduzione dei costi amministrativi e contemporaneamente una estrema facilità di controlli da parte del fisco.

Perché dobbiamo conservare gli scontrini della farmacia quando attraverso la tessera sanitaria potrebbero già essere recepiti dallo Stato nelle dichiarazioni dei redditi? Perché l'operazione 730 invece di migliorare il rapporto fisco-contribuente si è risolta nell'ennesima vessazione contro il cittadino e contro i professionisti che improvvisamente si ritrovano ad essere fideiussori del prelievo tributario? La tecnologia invece di diventare uno strumento di maggior dialogo e di semplificazione del rapporto stato-cittadino è diventata un'arma potentissima a tutela di una burocrazia sempre più complessa ed estesa. L'incrocio delle banche dati non deve essere solo uno strumento di repressione dell'evasione ma soprattutto uno strumento per limitare le dichiarazioni, le comunicazioni del cittadino liberandolo da adempimenti oggi pleonastici.

Attendiamo ormai da troppo tempo chiarimenti in tema di abuso di diritto. La sentenza della Cassazione n. 2193/2012, tra le altre cose, rivendica l'esistenza nell'ordinamento tributario del generale divieto di abuso del diritto, che consente il disconoscimento degli effetti di qualunque negozio posto in essere solo per vantaggi fiscali senza la presenza di valide ragioni economiche. Ricordiamo in merito quanto dichiarato, non senza una certa dose di involontario sarcasmo, dallo stesso Governo italiano nel Destinazione Italia:

"Il concetto di abuso del diritto è nato nell'ambito dell'Unione europea, per effetto di alcune sentenze della Corte di Giustizia limitate al comparto dei tributi armonizzati, e ha successivamente avuto uno sviluppo anche in Italia a seguito di alcune pronunce della Corte di Cassazione. Si tratta, quindi, di una fattispecie giurisprudenziale che confonde e rende incerto, con importanti ripercussioni penali, il confine fra evasione ed elusione fiscale e colpisce anche quei comportamenti del contribuente che, pur leciti, mirano a ottenere vantaggi non previsti dal legislatore. Una interpretazione troppo estensiva della definizione di abuso mina le certezze necessarie alle imprese per un'adeguata pianificazione fiscale."

Siamo davvero sicuri che tutto ciò possa incentivare un amministratore di una impresa estera ad aprire una sede in Italia?

Vorrei immaginare un Paese diverso, in cui l'azione di governo si misuri nella riduzione dell'intervento dello Stato stesso. Un Paese in cui la spesa corrente sia, se non ridotta, parzialmente convertita in spesa per investimenti. Un Paese in cui le grandi opere ed i grandi eventi come Expo servano ad immaginarci diversi. Liberiamo il mercato da rendite di posizione, da monopoli, da oligarchie ormai decotte e chi fa impresa tornerà a sporcarsi le mani e ad investire.

@commercialista