In una recente sentenza, la Corte di Giustizia Europea ha deliberato sul diritto di ognuno a vedere rimossi dai risultati dei motori di ricerca contenuti che lo riguardano, aprendo la strada alla considerazione dei search engines quali fornitori di contenuti anziché intermediari. Una decisione che pregiudica la libertà di accesso alle notizie, e quindi il pluralismo dell'informazione.

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Sul piano della normativa primaria europea, la cornice legale entro cui operano gli intermediari dei servizi della società dell'informazione (information society service providers) è costituita dalla direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico. Quest'ultima definisce tali intermediari come macrocategoria ricompresa sotto la figura dei "prestatori" di servizi della società dell'informazione, che racchiude diversi tipi di fornitori, poiché per "prestatore" si intende in generale «la persona fisica o giuridica che presta un servizio della società dell'informazione».

All'interno dell'insieme dei "prestatori", dunque, si possono individuare sia gli editori – che immettono direttamente i contenuti – sia i providers di servizi intermediari quali mere conduit, caching e hosting, nonché quei prestatori che non si occupano di elaborare i contenuti, bensì di indicizzarli, come avviene nei motori di ricerca. Questi ultimi, pertanto, si identificano come un internet service provider, e non come un editore, proprio perché non hanno alcun potere di controllo sui contenuti e per questo è esclusa la loro responsabilità editoriale. Infatti, essi forniscono risultati di ricerca che costituiscono semplicemente un collegamento con le pagine dei content providers, effettuando un'operazione che risponde a criteri di organizzazione automatica, dalla quale non consegue alcuna modifica dei contenuti, se non una loro citazione in ordine di rilevanza e di pertinenza.

Queste posizioni vengono confermate dalla Corte di Giustizia Europea nelle sentenze in cui essa ha escluso che i motori di ricerca potessero essere considerati responsabili di violazioni di diritti di proprietà industriale, come nella causa Google c. Vuitton. Riprendendo quanto stabilito con suddetta sentenza, si può affermare che, nel caso in cui un utente effettui una ricerca, i risultati proposti dal service provider derivano dalla scansione di tutti i contenuti già presenti nel web sui quali il motore di ricerca non può esercitare alcun tipo di controllo editoriale.

Lo stesso approccio viene indicato già nella direttiva 2000/31/CE, che nel Considerando n. 42 stabilisce che «Le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l'attività di prestatore di servizi della società dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate».

All'interno di queste attività ovviamente ricade quella del motore di ricerca, giacché esso fornisce l'accesso ai contenuti della rete mediante l'indicizzazione dei risultati di ricerca per renderne più facile il reperimento, nonché per garantire all'utente il diritto di accesso alle informazioni che circolano sul web. In tal senso, un problema non di poco conto si pone nel momento in cui il service provider viene assimilato alla figura editoriale, da cui invece è bene tenerlo distinto proprio perché i servizi forniti dai search engines non vanno a modificare i contenuti, ma semplicemente a veicolarli garantendone la reperibilità e l'accessibilità.

Siffatta problematica emerge, in particolare, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea relativa al caso Google c. AEPD (l'Autorità di protezione dei dati personali in Spagna) del 13 maggio 2014 (causa C-131/12). Nella pronuncia, infatti, si sono rinvenuti in capo al motore di ricerca Google i requisiti del titolare del trattamento dei dati personali, derivando quindi un onere per tutti i search providers di mettere a disposizione dell'utente metodi di rimozione dei link a tutela del loro diritto alla cancellazione dei dati che li riguardano, pur essendo disponibili e reperibili i materiali sul sito di origine.

L'errore di fondo, alla luce di quanto si sottolineava poc'anzi in merito alle caratteristiche dell'attività dei motori di ricerca, risiede nel separare l'interesse pubblico alla libertà di informazione dall'azione di ricerca intesa come libertà di poter ricercare le notizie. Infatti, se il content provider è legittimato a pubblicare, allora è altrettanto lecito l'accesso ai suoi contenuti fornito dal search engine: queste posizioni sono sostenute dalla lettura dell'articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) che configura la libertà di informazione anche come libertà di accesso alle notizie. Alterare i risultati di ricerca, mantenendo comunque i contenuti sul sito web dell'editore, dunque, va contro le nozioni di pluralismo e di libertà di informazione, ponendo la decisione della Corte di Giustizia europea in un potenziale contrasto con quanto previsto dallo stesso articolo 10 della CEDU.