Quel che il governo Renzi dovrebbe fare e non fare rispetto all'Europa. Il premier non otterrà facilmente il piano euro-keynesiano che ha evocato, dovrà concentrarsi su privatizzazioni e liberalizzazioni in patria, ma potrebbe essere un autentico rottamatore sul piano internazionale, facendo dell'Italia la punta più avanzata dei negoziati per il TTIP.

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Nei propositi pubblici espressi dopo le elezioni europee da Matteo Renzi, il cambio di passo della UE dovrebbe consistere essenzialmente nell'ammorbidimento dei vincoli di finanza pubblica per l'Italia e gli altri paesi in difficoltà, attraverso lo scomputo dal limite del 3% deficit-Pil di una quota robusta di investimenti pubblici nazionali e un irrobustimento della spesa europea nei singoli paesi, come meccanismo di redistribuzione tra membri dell'area euro. A questo si riferisce la politica, e il premier in primis, quando parla della necessità di "conciliare rigore e crescita". Ma siamo sicuri che sia questa la chiave "rottamatrice" di cui abbiamo bisogno?

Certo, la prima vittoria di Renzi è arrivata il 2 giugno, quando la Commissione Europea ha trasmesso ai paesi membri le sue periodiche raccomandazioni sullo stato dell'economia. Dopo (pare) una lunga discussione notturna, è scomparso dal testo il diniego del rinvio al 2016 del pareggio di bilancio per l'Italia. L'Europa dà credito politico al nuovo governo italiano, per ora, e accetta un allentamento temporaneo dei vincoli finanziari in favore dell'annunciato cambio di passo sul piano delle riforme strutturali.

Ma tra il rinvio di un anno del pareggio di bilancio e il piano keynesiano da 150 miliardi evocato dal premier all'indomani del voto c'è un abisso: tanto è stato facile avere il primo, tanto è difficile se non impossibile il secondo. A Bruxelles Matteo Renzi porrà la necessità – per dirla con le parole di Ignazio Visco nelle recenti Considerazioni finali del governatore di Bankitalia - di "un'azione concertata a livello europeo" di "sostegno alla domanda per investimenti e consumi". Ma il fronte più importante per il governo italiano è e resta quello interno, come in passato, più che in passato. Chi ha conseguito il 40 per cento del consenso (e il 46 per cento circa considerando l'intera maggioranza di governo) oggi ha il compito di rottamare la falsa retorica della "Europa matrigna", che ha occupato il dibattito pubblico italiano negli ultimi due anni.

Passate le elezioni europee, c'è da ridurre lo "spread" tra le dichiarazioni iperboliche e apocalittiche elettorali e le cose concrete da fare, a partire da quanto suggerito dalla stessa Commissione europea e dal "cattivo" commissario Olli Rehn. In primis, dovrà finalmente essere attivato un piano profondo di privatizzazioni, perché il vero dramma italiano continua ad essere l'enorme stock di debito pubblico. In seconda battuta, occorre riprendere a parlare concretamente di liberalizzazione dei servizi e di "liberazione" dell'economia italiana dai mille ostacoli corporativi e burocratici. Infine, lo de siempre: il fronte fiscale, l'alleggerimento del carico fiscale sul lavoro, attraverso la riduzione della spesa pubblica e la traslazione della tassazione sul consumo.

Sul fronte comunitario, esisterebbe per il governo Renzi la chance di ribaltare i termini della questione "austerità vs lassismo" con la ricerca di una "terza via", questa sì rottamatrice: rendere l'Italia la punta più avanzata dell'Europa nei negoziati euro-americani per il TTIP (Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti), la grande area di libero scambio delle due sponde dell'Atlantico. Il negoziato commerciale è di competenza della Commissione, ma la spinta dei governi nazionali sarà essenziale.

È una partita estremamente coraggiosa e delicata, perché gli accordi di libero scambio portano inequivocabilmente vantaggi a tutti, ai produttori europei ed americani e ai consumatori, ma si scontrano con gli interessi particolari di molte piccole e grandi corporazioni, con i rigurgiti nazionalisti e protezionisti e finiscono rapidamente nel tritacarne ideologico dei No-tutto. Invece, come ha scritto Giorgio Barba Navaretti sul Sole 24 Ore del 9 aprile 2014, questa è "una partita dove il motto renziano del ce ne faremo una ragione, ossia la strategia e la volontà di andare diritti alla meta, potrebbe essere molto utilmente speso ed esportato per il benessere di tutta l'Europa". Un forte impegno del governo italiano per il TTIP, nei mesi della presidenza di turno dell'Unione e durante la kermesse di Expo 2015, aiuterebbe il Paese a ritrovare un nuovo protagonismo e una nuova credibilità internazionale.

Uno degli studi più dettagliati sull'impatto dell'accordo, svolto per conto della Commissione Europea dal Centre for Economic Policy Research, stima i benefici dell'accordo a regime (nel 2027) in una forchetta compresa tra i 68 e i 119 miliardi di euro annui per l'Unione Europea (fino a 0,5 per cento del Pil dell'area) e in 50-95 miliardi per gli Stati Uniti. Prima si parte, prima si vedranno i risultati concreti per i cittadini europei ed italiani: già la semplice eliminazione delle barriere tariffarie produrrebbe un aumento del Pil europeo di 24 miliardi di euro circa e un incremento di quello americano di circa 9 miliardi, per non parlare dei guadagni di competitività delle due grandi economie rispetto alle altre aree del mondo.

C'è bisogno di follia, per dirla con Erasmo da Rotterdam (o di Rottamatordam).