Un comunicato ISTAT, alcuni giorni fa, ha annunciato che in base ai nuovi criteri di calcolo del Prodotto Interno Lordo (PIL), a partire dal 2014 entreranno nel computo anche attività illegali come i servizi della prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando. In che modo questo cambierà, se cambierà, la situazione del bilancio pubblico? 

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Molti commenti hanno subito parlato di “boom” del PIL italiano, lasciando quasi intendere che l'inclusione dell’economia illegale produrrà chissà quale incremento della ricchezza nazionale. L’ironia di un paese che per aumentare il PIL, ormai, deve riporre le proprie speranze nella prostituzione, nel traffico di droga e nel contrabbando ha solleticato un po' tutti. In effetti, sarebbe paradossale se l'Italia, con il suo “popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori e trasmigratori”, alla fine venisse salvata da prostitute, pusher e contrabbandieri.

C’è chi, invece, ritiene che la ricchezza nazionale non dovrebbe includere il valore economico delle attività illegali, anche se esso è il risultato del libero scambio sul mercato, dal momento che a tale valore si contrappone il danno sociale prodotto da queste attività. Insomma, l'opinione è che tali attività producono sì valore in capo ad alcuni soggetti, ma non possono essere considerate vera ricchezza o benessere per una collettività nazionale. Benessere che, secondo una specie di illusione collettiva, dovrebbe essere espresso dal PIL. 

I cambiamenti introdotti con i nuovi criteri riguardano anche altri aspetti importanti (ad esempio la valutazione delle spese per investimenti in ricerca e sviluppo, per citarne uno). Ma comprensibili ragioni di clamore mediatico, come al solito, hanno dirottato le luci dei riflettori sull'economia illegale e lasciato in ombra tutto il resto.

Proviamo a spendere qualche parola sulle due questioni sollevate dal dibattito. La prima: i nuovi criteri di calcolo faranno veramente registrare un “boom” al nostro PIL? La seconda: boom o meno, qual è il significato dell'indicatore “PIL”? È corretto associarlo - come ci hanno abituato a fare - con il concetto di ricchezza nazionale o, meglio ancora, con il benessere della nazione e dei suoi cittadini?

Veniamo alla prima questione. L'ipotesi di un boom fa tornare in mente la rivalutazione statistica del PIL italiano nel 1987. Quell’anno l'ISTAT rettificò i criteri contabili includendo nel PIL la stima dell'economia sommersa, cioè l'insieme di tutte le transazioni e attività legali nascoste al fisco e alle rilevazioni ufficiali. La rivalutazione fu cospicua: nell'ordine del 15 per cento! Una cifra da record che permise all'Italia, allora guidata da Bettino Craxi, di superare il PIL della Gran Bretagna targata Margaret Thatcher. Gli inglesi non la presero sportivamente: dissero che l'Italia truccava i conti. Ma questo non impedì al Bel Paese di entrare nel novero delle grandi potenze economiche del mondo di allora, rappresentate dal “mitico” G7. 

In questo momento, non si può negare, un boom come quello del 1987 ci farebbe comodo. A scanso di equivoci, però, è bene chiarire un concetto: se pure fosse un boom, sarebbe un boom puramente statistico, senza nulla a che vedere con la sostanza. Il maggior valore aggiunto risultante dal ricalcolo del PIL, infatti, esiste già. Solo che le statistiche ufficiali fino a oggi non ne hanno tenuto conto. I redditi generati dalle attività illecite si riflettono già oggi sui consumi.

Il giorno dopo la revisione contabile, nulla cambierà, se non il numero espresso dall’indicatore di contabilità nazionale. Anche per i conti pubblici non ci sarà nessun reale cambiamento. L’economia illegale non paga imposte sui redditi. E inserirne il valore in contabilità nazionale non cambierà certo le cose. Perciò, niente risorse aggiuntive per lo Stato. Si potrà avere un miglioramento degli indicatori di finanza pubblica (rapporto debito/PIL e deficit/PIL), anche esso puramente statistico. Che ci aiuterebbe sul fronte dei vincoli di bilancio europei e potrebbe rivelarsi utile per il rispetto del temutissimo fiscal compact. Questo sì. 

Ciò detto, in ogni caso, è bene non farsi troppe illusioni sulla portata del “boom”. Le correzioni, con ogni probabilità, saranno poco più che marginali. Nulla di paragonabile a quello che avvenne nel 1987. Alcune stime sono state già pubblicate da Eurostat e indicano, per l’Italia, una correzione in aumento del PIL tra l'1 per cento e il 2 per cento appena (pensare che per il PIL tedesco si stima una correzione di circa +4 per cento). Anche le correzioni sui parametri di finanza pubblica, perciò, saranno modeste e sicuramente non decisive ai fini del rispetto dei vincoli europei. Insomma, non saranno i nuovi criteri di contabilità nazionale a risparmiarci lo sforzo in direzione dell'austerità. A quello, semmai, dovrà provvedere la politica italiana in sede europea. 

Veniamo ora alla seconda questione. Da tempo l'indicatore “PIL” è oggetto di numerose critiche. Il miglioramento delle statistiche e l'affinamento delle stime lo rendono sempre più preciso e aderente al reale valore aggiunto dell'economia. Ma non riducono la distanza che lo separa dal concetto di benessere reale di un paese, delle persone che ci vivono e ci lavorano.  Peraltro, tutte queste revisioni e rivalutazioni del PIL, che oggi sono decise in sede Eurostat e non più autonomamente dagli stati, non mirano certo a farne un buon indicatore del benessere reale. Servono per lo più a farne un indicatore utile per attribuire, possibilmente in modo inequivocabile, diritti, compiti e responsabilità ai vari paesi dell'Unione

L'istituto di statistica europeo ha il compito di assicurare che i dati sul PIL di tutti i paesi UE siano omogenei tra di loro, non semplicemente per una mera confrontabilità statistica, ma perché sulla base di questi dati si fissano impegni vincolanti che i paesi membri assumono tra di loro o nei confronti della UE. Impegni come quelli derivanti dal rispetto dei parametri di finanza pubblica. Oppure i contributi che ogni stato deve versare al bilancio comunitario, calcolati in base al PIL. Oppure, ancora, la ripartizione dei fondi europei, che avviene anche essa in base al PIL. 

Nelle mani dei singoli stati, poi, il dato sul PIL diventa un formidabile strumento di retorica politica quando, per esempio, un misero decimale di crescita in più diventa l'opportunità per affermare che “la ripresa è dietro l'angolo”, o un decimale di crescita in meno diventa il pretesto per accusare il governo in carica di non fare abbastanza per “rilanciare l'economia”. Oppure quando si punta il dito sulla parte del PIL prodotta dall'economia sommersa (e da oggi anche quella illegale) per affermare che nel nostro paese “bisogna far pagare le tasse agli evasori”. Altro pretesto per rimandare i tagli alla spesa pubblica e continuare, invece, a tartassare i soliti noti.       

Se così stanno le cose, la statistica sul PIL, invece di rappresentare fedelmente il benessere di un paese e registrare i suoi alti e bassi, è sempre più un indicatore formale, a uso e consumo di ritualità burocratiche. Peraltro, in mano alla politica, assomiglia sempre di più a un'arma di distrazione di massa. Che per nulla riguarda la condizione di cittadini, imprese e famiglie. Poco importa, allora, se con la prossima rivalutazione il fatidico numeretto registrerà o meno un boom. La mattina dopo ci risveglieremo, e allo specchio saremo esattamente quelli del giorno prima.