Era dal lontano 1958, quando la DC prese il 42%, che un singolo partito non superava il 40% in elezioni nazionali. E’ accaduto dopo 5 anni di devastante crisi economica, dopo anni di deludenti salvatori della Patria e rivoluzionari a parole. Gli italiani hanno scelto di affidarsi a chi sembra offrire una speranza di riforme senza salti nel buio, e l’analisi del voto conferma come sia stata un’onda moderata ad avere premiato il PD.

balduzzi - Copia

L’analisi del voto, in primo luogo al PD, conferma queste impressioni: un’onda di persone ormai con nessuna o una flebile identità ideologica, che pragmaticamente vota chi può “fare qualcosa”. È necessario partire dall’osservazione dei luoghi in cui vi sono i maggiori aumenti di consenso: un confronto con il 2013 ci mostra come il progresso del 15% sia piuttosto omogeneo, ma con picchi significativi del 18% nel Triveneto, tra Udine e Treviso. Probabilmente è la prima volta che in una provincia come Pordenone la sinistra sia sopra la media nazionale.

Cosa sia successo ce lo mostra ancora meglio il confronto con il 2009, in pieno dominio berlusconian-leghista. Ebbene, rispetto al 2009 il PD avanza del 14%, che però diventano il 20-21% nelle province di Bergamo, Varese, Vicenza, Belluno, Pordenone. Zone bianchissime una volta, refrattarie come nessun'altra area alla sinistra. Queste province avevano anche una particolarità, erano quelle in cui nell’ormai lontano febbraio 2013 Scelta Civica aveva ottenuto più voti, e al netto della minore astensione e di alcuni passaggi da M5S, è proprio dal bacino di Scelta Civica che il PD ha assorbito più voti ed è soprattutto grazie a questi che ha superato il 40%.

Di chi si tratta dunque?

È il cosiddetto “ceto produttivo”, che non riesce più a sostenere l’immutato e immutabile centrodestra berlusconiano con i suoi fallimenti e l’azzerata credibilità soprattutto nel proporre le riforme necessarie. L'itinerario dal centrodestra della Seconda Repubblica a Monti e poi al PD renziano passa attraverso quei professionisti, imprenditori, manager e dipendenti specializzati che, scottati e scioccati dalla crisi economica, sono diventati ancora più pragmatici e allergici all’appartenenza ideologica.

Già il loro voto del 2013 era stato all’insegna della speranza in un salvataggio pragmatico dalla crisi, con la scelta del non telegenico, ancora meno comunicativo Monti che in fondo rappresentava quel cattolicesimo liberale alla milanese, da Manzoni a Montanelli, di cui si era orfani da molto tempo. Nel 2014 i panni dell’ideologia e dell’appartenenza culturale sono stati definitivamente smessi: davanti al paventato pericolo di successo grillino, dopo la crisi quello che più conta per questo elettorato non appassionato di politica - e però con qualcosa da perdere - è chi può “fare qualcosa”, chi può risollevare l’economia, fare riforme, magari senza neanche approfondire le singole misure renziane che giustamente molti econonomisti liberali definiscono insufficienti o sbagliate.

C’è del vero in quanto sostiene Freccero che “l’Italia è un Paese cattolico, ottimista, che non ha mai fatto una rivoluzione”, soprattutto nell’ultima constatazione, e ora più che mai i nuovi elettori PD, quel 10-15% moderato, cerca ottimismo e speranza. Si tratta anche di un elettorato cattolico, infatti: prima delle elezioni un sondaggio IPSOS rilevava che tra i cattolici praticanti il PD aveva più consensi di quanti ne avesse tra tutta la popolazione italiana. È la prima volta dal 1946. Una indagine di IPR mostra infatti il trionfo del PD tra le donne e gli anziani, in questo caso oltre la maggioranza assoluta. Si tratta di identikit simili a quelli della DC di un tempo.

Al risultato ha contribuito il grosso divario tra l’affluenza al Centro Nord e quelle che Telese chiama le “circoscrizioni della rabbia”, quelle del Sud e delle Isole, dove ha votato il 20-25% in meno che in Lombardia o Emilia Romagna. Qui il successo del PD è stato largamente inferiore, e il partito di Renzi ha quasi ovunque meno della media nazionale anche laddove, come nel napoletano o in Calabria, in passato aveva risultati lusinghieri. Qui il M5S è andato decisamente meglio, con risultati alla pari o superiori al 2013, come in Sardegna, nel Sulcis, dove è aumentato di 3 punti, o in provincia di Napoli, dove nel 2013 aveva deluso e ora è sopra la media nazionale. Crolla invece nelle aree del centro-nord, anche dell’8% tra le Marche e la Toscana, in Liguria e a Parma, certamente pare perdere i voti di sinistra, soprattutto dove Renzi ha trionfato alle primarie, e ora il PD guadagna di più. Resiste invece nelle citate aree maggiormente destrorse (almeno nel 2013) del centro-Sud.

Con una facile battuta qualcuno potrebbe dire che sono zone dove è difficile che ci siano molti lavoratori regolari a ricevere il bonus di 80€ in busta paga, ma in realtà è vero che qui vi sono i giovani con “niente da perdere”, in cui la paura per l’uscita dall’euro o per un default è molto relativa. I dati sulla disoccupazione giovanile o sull’occupazione femminile in queste regioni sono simili a quelli del Nordafrica. Anche questo voto allarga la spaccatura tra Nord e Sud: un Nord che vuole sperare e pragmaticamente si affida a chi dice di darne una, di speranza, almeno fino alla prossima disillusione, e un Sud che in tanti casi neanche si esprime, che langue nel calo demografico, la disoccupazione e l’inoccupazione, e che si affida ad un voto di protesta e disperazione.

Vi è poi il centrodestra che, a differenza di quanto si ripete in queste ore, è rimasto vivo e piuttosto vegeto, aumentando le proprie percentuali di circa 2 punti rispetto al 2013. Perchè non esiste solo Berlusconi, e non è sul suo successo che si può misurare la salute di un’area. Come succedeva ai tempi gloriosi della Casa delle Libertà, sia pure su livelli molto più modesti gli insuccessi di un partito sono stati compensati dai successi di altri: la Lega ha incrementato i propri voti, così come Fratelli d’Italia, grazie al loro messaggio anti-europeista e alla relativa freschezza dei rispettivi leader. Sono in effetti due partiti con una identità precisa e un radicamento nei vecchi feudi di Lega e AN, e con ogni probabilità hanno un futuro davanti a sé.

Delude invece il Nuovo Centrodestra-UDC: considerando un 2% di dote dell’UDC il risultato di Alfano è veramente misero. Ai tanti generali, feudatari e signorotti emigrati dal PDL non corrisponde un popolo, e il risultato del Nord è inferiore a quanto la sola UDC prendeva un tempo, sotto il 3% tra Lombardia e Piemonte, anche laddove CL ha il maggiore radicamento. Ha una certa importanza solo nella Sicilia di Alfano e nella Calabria del discusso e discutibile Scopelliti. È chiaro che anche questo elettorato di riferimento, moderato e cattolico, come quello di Scelta Civica è stato tra i più risucchiati nell’orbita renziana o nell’astensione.

Forza Italia invece è ormai un partito meridionale, anche nelle tradizionali roccaforti del Nordovest tra Imperia e Novara il partito va appena oltre la media nazionale e prende 10 punti meno che a Caserta o Latina. La forza propulsiva è finita da tempo.

L’errore oggi da evitare è immaginare questi risultati come definitivi per i prossimi anni o decenni: ormai la liquidità del voto degli italiani è aumentata a dismisura, e i sondaggisti se ne sono accorti a proprie spese.