Verdini Renzi

Il combinato disposto dell'Italicum, della disgregazione del partito berlusconiano, e della sponda nazarena offerta a Renzi da Verdini a Palazzo Madama per proseguire la legislatura fino al 2018 disegna, in vista delle prossime elezioni, uno scenario non troppo diverso da quello del voto 2013.

All'epoca, Italia Bene Comune si presentò come una compagine che riallineava a sinistra, dopo l'esperienza del governo Monti, l'immagine e la proposta del PD, ma che difficilmente avrebbe potuto affrontare autonomamente una nuova stagione di governo.

L'insufficienza della coalizione era quasi programmaticamente preventivata, sia sul piano numerico, perché era quasi certo - pur a fronte di sondaggi favorevoli - il non superamento della maggioranza assoluta dei seggi al Senato, sia sul piano politico, visto che SeL era del tutto indisponibile a proseguire sulla strada della cosiddetta austerità, sia pure socialmente temperata. In quel quadro, il partito montiano era dato per certo partecipante alla coalizione di maggioranza, sia per supplire alla scarsità dei numeri a Palazzo Madama, sia per offrire una sponda responsabilmente "governista" a un Bersani costretto a rintuzzare le fughe in avanti della sinistra PD e di SeL.

Poi il risultato del voto, che andò oltre le peggiori aspettative, rese impraticabile questo scenario, perché a Palazzo Madama i seggi montiani non risultarono sufficienti per raggiungere la maggioranza e si aprì una nuova fase "gran-coalizionista" come quella sperimentata e naufragata alla fine della precedente legislatura.

L'Italicum, abbinato alla fine del bicameralismo (se confermato dal referendum costituzionale, ovviamente), rende impossibile per la prossima legislatura un pareggio a Montecitorio, cioè nella sola camera che voterà la fiducia al governo. Ma non scongiura affatto i rischi di insufficienza politica del Pd rispetto alla sfida di governo. Per intanto, i 340 seggi assegnati dalla legge elettorale alla forza di maggioranza la lasciano appesa a soli 25 voti, molti più di quelli che - fotografando i rapporti di forza attuali - la sinistra PD potrà spuntare nel prossimo parlamento. In secondo luogo, non è escluso (anzi è prevedibile) che le divisioni del Pd - che non potrà mai essere del tutto "renzizzato" come FI è "berlusconizzata" - proseguiranno anche nella prossima legislatura.

In questa stagione politica Renzi giustamente rivendica il vanto di una serie di riforme, nessuna delle quali - dal Jobs Act, alla riforma costituzionale, fino alle unioni civili - sarebbe stata approvata se la maggioranza fosse stata quella di un monocolore PD e non fossero state disponibili sponde esterne da usare a fini interni. Nella prossima stagione questo scenario si riproporrà, probabilmente rafforzato. Qui entra in campo Verdini e l'ipotesi, tutt'altro che segreta, di un "centro moderato" (Verdini+Alfano+Zanetti+Tosi+chi ci sta) in grado di superare autonomamente lo sbarramento del 3%, per poi andare al governo con Renzi.

A questa ipotesi, la sinistra Pd ha risposto rispolverando il razzismo antropologico contro la diversa statura morale dell'elettorato post-berlusconiano e dei suoi rappresentanti e ammonendo il segretario Renzi a escludere preventivamente qualunque accordo con forze di differente e meno puro lignaggio. Un riflesso insieme di vetero-comunismo e di elitismo politico, decisamente connaturato al "ceto medio riflessivo". Però la questione Verdini-Alfano ecc. ecc. rimane, sebbene in un senso del tutto diverso.

Il centro moderato cosa sarebbe? Cosa proporrebbe? A cosa vincolerebbe il futuro governo, in cambio del suo sostegno? Se Renzi non è Bersani e ha dimostrato di volersi lasciare alle spalle alcuni dei tabù simbolici della sinistra e di prediligere un approccio più pragmatico e meno ideologico ai cosiddetti "valori della sinistra", Verdini & C non sono affatto Monti, da nessun punto di vista. Non pesano elettoralmente quanto il professore nel 2013 (con il 3% a Montecitorio verrebbero fuori, più o meno, una quindicina di seggi). Non hanno nessuna linea innovativa in materia economico-sociale, ma piuttosto la rappresentanza di una miriade di interessi micro-settoriali, dentro e fuori il perimetro della PA.

Sull'Europa riecheggiano le polemiche "anti-austerità" avviate dall'Alfano delfino berlusconiano alla fine della scorsa legislatura, che ora hanno contagiato anche molti esponenti europeisti del PD e lo stesso premier. In materia di diritti di libertà sono un misto di para-clericalismo e di indifferentismo, quindi né popolari, né liberali, guardando alle due famiglie europee a cui questo centro dovrebbe, teoricamente, fare riferimento. Sulla madre di tutte le battaglie, in Italia e in Europa, cioè il governo politico dei flussi migratori conseguente all'esplosione degli equilibri mediorientali, rappresentano il fronte più friabile della maggioranza renziana e il più vulnerabile dalla retorica nazionalista - proprio sul tema più vitale oggi per l'Italia.

Oggi, e domani, al premier senza alternative - Grillo e Salvini non sono democraticamente delle alternative, ma solo dei pericoli - servirebbe la sponda di un centro (absit iniuria verbis) più montiano che alfanian-verdiniano. Invece Renzi attacca Monti a palle incatenate, e tratta (a distanza di sicurezza) con un centro che non è brutto-sporco-e-cattivo, come vorrebbe Gotor, ma è oggi quanto di più puramente impolitico e quindi politicamente inutile abbia distillato questo Parlamento e possa proporre il prossimo.

@carmelopalma