La cassa integrazione in deroga è nata come intervento eccezionale. È diventata una risposta ordinaria e insostenibile alla crisi occupazionale. Intanto su ammortizzatori della disoccupazione e politiche attive per il lavoro in Italia si recita la solita commedia degli equivoci. Le riforme Hartz sono un modello, ma neppure la Germania è un Bengodi.

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Che cosa succederà ai dipendenti dei partiti, cui l’abolizione del finanziamento pubblico ha tagliato i viveri? Per loro – possiamo scommettere tranquillamente – sarà richiesta e concessa la cassa integrazione (cig) in deroga. Lo diciamo senza alcuno spirito polemico, appartenendo noi (il plurale è maiestatis) a quel piccolo gruppo d’italiani cui l’antipolitica produce sgradevoli conati di vomito. Riserviamo invece la nostra polemica a un altro aspetto che solitamente non è preso in considerazione: all’uso che si continua a fare della cig in deroga, inizialmente pensata come strumento di carattere quasi eccezionale per interventi mirati a sostegno d’imprese o lavoratori non destinatari della normativa sulla cassa integrazione guadagni, relativa a determinati settori produttivi o specifiche aree regionali, individuate in appositi accordi governativi.

La cig in deroga è entrata a far parte dal 2008 della gestione corrente degli ammortizzatori sociali: inizialmente, ciò avvenne per tante buone ragioni, la più importante delle quali era la necessità di affrontare tempestivamente ed adeguatamente una crisi improvvisa e drammatica; le imprese, trovatesi all’improvviso prive di ordini, richieste di rientrare delle loro esposizioni con le banche anche per il credito ordinario e costrette a ridurre drasticamente i volumi produttivi, si ponevano drammaticamente, in quell’autunno, il problema di che cosa fare della manodopera inutilizzata. Ad avviso della sinistra occorreva riformare l’indennità di disoccupazione, per renderla applicabile a tutte le posizioni lavorative, comprese quelle cosiddette precarie. Sarebbe stato, invece, un segnale con effetti devastanti. Le aziende sarebbero state invitate a licenziare.

Il Governo Berlusconi giocò invece la carta degli ammortizzatori sociali, estendendone, mediante la Cig in deroga e la riorganizzazione, in via amministrativa, della Cig ordinaria e di quella straordinaria, la copertura, senza soluzione di continuità, anche ai quei settori del mondo del lavoro dipendente (più della metà) che ne erano privi. Nel febbraio 2009, in seguito all’accordo tra lo Stato e le Regioni, furono mobilitati 8 miliardi (rispettivamente 5,5 e 2,5) per l’anno in corso e per il 2010. Il tiraggio della cig (ovvero l’effettiva utilizzazione delle ore autorizzate) fu pari al 65% nel 2009 e al 50% nel 2010 (è bene notare che le ore utilizzate sono sempre meno di quelle autorizzate, perché le aziende si cautelano chiedendo di più di quanto loro effettivamente serva).

Adesso, la cig in deroga, da modalità di intervento di carattere temporaneo e straordinario per fronteggiare la crisi economica, nel momento della sua maggiore ed improvvisa gravità, si sta trasformando in una forma di sostegno al reddito in caso di sospensione ordinaria dal lavoro, ricorrente e puntualmente rifinanziata ad ogni scadenza. Insomma, con la cig in deroga il sistema degli ammortizzatori sociali è stato esteso, nei fatti in via permanente, anche a quella metà del mondo del lavoro dipendente che, in precedenza, non godeva di questi diritti. Con una differenza, tuttavia: mentre la cig ordinaria (cigo) è finanziata dalla contribuzione sociale (è invece lo Stato a provvedere tramite la fiscalità generale alla cig straordinaria, quella che interviene nei processi di riorganizzazione, riconversione e ristrutturazione delle imprese), per la la cig in deroga paga Pantalone.

Persino il gruppo dei saggi-facilitatori del Quirinale ribadì l’esigenza di finanziare in modo adeguato la Cig (in deroga), stimandone l’onere in un ulteriore miliardo rispetto a quanto stanziato nella legge di stabilità 2013. Così, lo strumento straordinario della Cig in deroga ha accompagnato tutto il percorso della crisi, fino a entrare nel meccanismo della riforma degli ammortizzatori sociali (con l’istituzione dell’Aspi) disciplinata dalla legge Fornero sul mercato del lavoro. L’applicazione della Cig in deroga è infatti previsto, nella legge n.92 del 2012, all’interno del percorso graduale con cui le previgenti tutele accompagnano l’andata a regime, nel 2016, di quelle nuove.

Sempre nella riforma Fornero, però, è indicata una soluzione strutturale anche per quei settori che oggi sono tutelati dalla Cig in deroga, perché non dispongono di altre forme di salvaguardia dei redditi in caso di sospensione del lavoro. Si tratta dell’istituzione di Fondi di solidarietà per la tutela dei lavoratori nei settori non protetti. Ma fino a quando può durare un sistema di ammortizzatori sociali in base al quale una parte del mondo produttivo paga i relativi contributi, mentre un’altra parte (quella che non era coperta dalle vecchie regole) continua ad avvalersi dell’intervento dello Stato e delle Regioni, grazie al finanziamento della Cig in deroga, per di più in contesti produttivi (piccole imprese, studi professionali, ecc.) dove è difficile il controllo e sono facili gli abusi?

Da tempo la soluzione è stata indicata nello sviluppo del “bilateralismo” e della sussidiarietà. La legge Fornero del 2012 ha assunto tale problematica in modo organico e in una prospettiva di stabilità. Ma in Italia, non c’è niente che sia destinato a essere più duraturo delle soluzioni provvisorie. Da ultimo, la questione degli ammortizzatori sociali è divenuta oggetto della sfida tra Enrico Letta (e il governo da lui presieduto) e Matteo Peter Pan Renzi. Ambedue annunciano nuovi progetti fin dai primi mesi del prossimo anno. Per ora conosciamo soltanto ciò che raccontano i quotidiani. Renzi, tramite il guru Yoram Gutgeld, sembra voler saccheggiare il “pacchetto Ichino” a cui si è aggiunto il contratto di ricollocazione ovvero un impegno formale – ed oneroso - dell’azienda nell’aiutare il dipendente licenziato a trovare un altro impiego. La vera svolta, da noi, sarebbe però un’altra.

In Europa e negli Usa le politiche passive del lavoro (ovvero gli strumenti di salvaguardia del reddito per i disoccupati) sono finalizzati ad aiutare le persone nella ricerca di un nuovo impiego e quindi fanno da supporto alle politiche attive (riprofessionalizzazione, reinserimento nel mercato del lavoro), che costituiscono (pur con le loro difficoltà) l’asse principale delle politiche pubbliche dell’impiego. I cosiddetti ammortizzatori sociali vengono limitati nel tempo (più negli Usa e nel Regno Unito che nell’Europa continentale e meridionale) allo scopo di evitare l’assuefazione del disoccupato e di spingerlo a darsi da fare per trovare un nuovo lavoro, tanto che esiste una condizionalità molto accentuata tra prestazione e offerta d’impiego da parte dei relativi servizi, anche se quello nuovo è retribuito in modo inferiore al posto di lavoro perduto.

Da noi, nei fatti, ‘’fa aggio’’ l’erogazione del sussidio, che sia il più elevato e duraturo possibile. La condizionalità della prestazione è assolutamente virtuale, nel senso che raramente si propone, da parte dei servizi per l’impiego, al disoccupato l’opportunità di nuovo lavoro, ma frequentemente si chiude un occhio nel caso di rifiuto. Si arriva addirittura – per avere conferma basta chiedere agli operatori del settore – a situazioni in cui un cassaintegrato non si rende disponibile per un nuovo lavoro fino a quando non ha esaurito l’intervento di tutela. Il fatto è che trovarsi in regime di sospensione retribuita dal lavoro – godendo quindi della copertura previdenziale figurativa – consente di svolgere, laddove è possibile e lo è ben più di quanto non si creda in qualunque area del paese, un’attività in nero nell’economia sommersa.

In Italia, si parla tanto delle riforme del mercato del lavoro realizzate ormai da un decennio in Germania e di come siano servite non solo a difendere, ma a creare anche occupazione. Le riforme proposte dalla Commissione Hartz, all’inizio del decennio, non si sono limitate a ridurre l’entità e la durata delle prestazioni, ma hanno forzato l’accesso ad altre occasioni di lavoro anche in regime di deroga nelle retribuzioni contrattuali. Le riforme Hartz erano rette dall’obiettivo del make work pay allo scopo di incoraggiare la partecipazione al lavoro anche con attività non altamente qualificate e a basso salario – mini-jobs e midi-jobs: i primi con retribuzioni inferiori a 400 euro mensili, i secondi comprese tra 400 ed 800 euro – che prevedono una decurtazione modulata dei contributi sociali. Scopriamo così che nel paese del Bengodi esistono milioni di lavoratori che svolgono mansioni sottopagate senza che lo raccontino i talk show di casa nostra (si troverà pure un modo per chiamare autori e conduttori a rispondere di questa “professionalità”, o no?).

Come pure nessuno spiega che laddove è alta l’occupazione femminile lo è pure il lavoro a part time delle donne e che la prima circostanza dipende ampiamente dalla seconda. I miracoli non li fa nessuno. Piena occupazione, stabilità d’impiego, retribuzioni elevate per tutti sono presenti contemporaneamente solo nell’Isola che non c’è.