Oltre gli storicismi, per una storia dell'arte darwiniana
Marzo/aprile 2017 / Terza pagina
Nell’evoluzione, la comparsa delle nuove specie non dipende dalle circostanze precedenti l’innovazione, ma dalle variazioni casuali dei genomi e dalle condizioni contingenti esterne che operano la selezione dei singoli individui. Allo stesso modo, applicando un’analoga idea 'darwiniana' all’evoluzione delle culture figurative e stilistiche, si può dire che gli artisti introducono innovazioni che vengono selezionate o respinte dalla comunità in cui vivono.
Il primo corso di storia dell’arte all’università ha di solito un titolo del tipo “metodologia della ricerca storico-artistica”. Alla prima lezione, quasi sempre vengono mostrate agli studenti due diapositive, una di un’opera di Giotto e una di un dipinto di Michelangelo o Leonardo o Raffaello. E viene spiegato che per studiare l’arte, prima di tutto, bisogna evitare di cadere nell’“errore vasariano”. Cioè evitare di considerare l’arte, come nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architetti di Giorgio Vasari, come un progresso da forme di rappresentazione rudimentali, ad altre sempre più raffinate.
L’arte - spiegano – non progredisce, ma piuttosto si trasforma. Cambiano gli stili e le Weltanschauungen, i “modi di vedere il mondo”, e di conseguenza anche i linguaggi e i valori estetici che caratterizzano le immagini. Non si può quindi giudicare un’opera medievale con il metro del Rinascimento, del Barocco o del Cubismo. E poi non esistono forme assolute e oggettivamente valide di “naturalismo” ma solo diversi codici di rappresentazione, tutti equivalenti e realistici rispetto al sistema di convenzioni visive in cui sono stati usati.
Molta storia dell’arte, rifiutando qualsiasi idea di progresso, si è dedicata a cercare di definire allora “leggi intrinseche oggettive” del cambiamento degli stili e delle concezioni estetiche sottostanti le singole opere, secondo un approccio non troppo diverso da quello, ad esempio, di un Karl Marx impegnato a scoprire le “leggi storiche” del mutamento sociale ed economico. Questa versione di storicismo applicata ai prodotti della cultura visiva, o “scienza storica dell’arte”, si poneva l’obiettivo di mostrare le ragioni per cui una data opera, di fatto, “non poteva non accadere” in un dato momento.
Studiosi come Konrad Fiedler, Alois Riegl, Heinrich Wölfflin e più tardi Otto Pächt, o in Italia Carlo Ludovico Ragghianti (e a suo modo lo stesso Roberto Longhi) provarono a definire metodi “scientifici” come quello della “pura visibilità”, che mostrassero il carattere necessario dei cambiamenti nelle arti visive. Ancora oggi, ai corsi di storia dell’arte – almeno in Italia – se ne studiano meticolosamente i testi, e si finiscono spesso per considerare “scienza” le versioni che ciascuno studioso ha dato delle “regole di trasformazione” dell’arte e degli stili da un periodo all’altro o da un contesto geografico e culturale all’altro.
Questi approcci sono poco convincenti, perché soffrono di una struttura logica circolare e di quello che nel metodo scientifico viene chiamato “bias di conferma”. A partire da osservazioni di opere singole si traggono enunciati universali – i quali spesso, ovviamente, rispecchiano gusti, idee ed esperienze soggettive di ciascuno studioso - che poi si utilizzano per “spiegare” e classificare le opere stesse.
Frasi del tipo “Il Manierismo segna la crisi dei valori del Rinascimento”, oppure “Cezanne è il preludio alla scomposizione dello spazio operata dal Cubismo”, possono suonare semplicistiche, ma non è raro imbattersi in studi storico-artistici o di critica d’arte molto documentati e articolati che risentono delle stesse fallacie metodologiche, facendo cherry picking delle opere che confermano i pregiudizi degli autori. Inoltre, spesso sono interpretazioni teleologiche della storia. Interpretano cioè i fatti precedenti (Cézanne), alla luce di quelli successivi (il Cubismo), dando l’illusione di una sorta di direzione “razionale” della storia verso un dato scopo. Infine incentivano l’uso di un linguaggio profetico, fatto di paroloni che però, stringi stringi, non spiegano nulla.
Dunque esistono leggi storiche del cambiamento artistico e stilistico? Difficile crederlo, almeno nel senso proposto da queste interpretazioni. In generale è difficile credere nell’esistenza di leggi storiche per cui gli eventi successivi sono l’esito inevitabile di quelli precedenti. Nella storia naturale, quest’idea è stata ampiamente confutata dalla teoria dell’evoluzione darwiniana, ma nelle discipline umanistiche e nella storia della cultura e dello stile sembra ancora molto diffusa. Nell’evoluzione, la comparsa delle nuove specie non dipende dalle circostanze precedenti l’innovazione, ma dalle variazioni casuali dei genomi e dalle condizioni contingenti esterne che operano la selezione dei singoli individui.
Ora, perché non applicare una analoga idea “darwiniana” anche all’evoluzione delle culture figurative e stilistiche? Un approccio del genere consentirebbe di descrivere in modo convincente l’emergere di innovazioni pittoriche, l’affermazione e la contaminazione di effetti e stili figurativi nelle diverse tradizioni. È facile constatare come anche nelle arti figurative, sulle innovazioni e scoperte di effetti proposte dai singoli artisti o imprese artistiche, agiscano forze selettive, legate al semplice esercizio della preferenza da parte della comunità su un’opera o una “maniera” piuttosto che un’altra – un po’ come avviene nel mercato, dove i consumatori ‘selezionano’ i prodotti – oppure di natura politica e ideologica, come l’imposizione di obblighi e divieti stilistici e iconografici.
Situazioni simili si sono verificate molte volte, dall’arte preistorica fino ai graffiti urbani, passando per l’arte classica e moderna. Per farla breve: gli artisti introducono innovazioni, la comunità in cui vivono le seleziona. Le scelte stilistiche più apprezzate possono diventare istituzionali ed arricchire il repertorio di una certa tradizione figurativa, oppure, al contrario, non destare interesse o perfino suscitare un rifiuto da parte del pubblico, fino all’emergere di ulteriori innovazioni.
Come si trasmettono le “tradizioni stilistiche”? In natura ci pensa il Dna a replicare le informazioni. Nell’arte il Dna non c’è, ma esistono – soprattutto esistevano – istituzioni e metodi per la “replicazione” degli stili. Nel Medioevo e nel Rinascimento c’erano le botteghe, poi le accademie. In altre culture esistevano istituzioni simili. I giovani si formavano in lunghi anni accanto ai maestri, apprendevano per gradi le tecniche di esecuzione, i modelli stilistici, e i contenuti iconografici e simbolici. In questo processo di trasmissione delle conoscenze, l’ambiente peculiare della bottega doveva esercitare una prima selezione sugli allievi, facendo avanzare i più capaci, e anche i più innovativi. Nelle accademie, con le teorizzazioni classicistiche del ‘600, si sarebbero invece fatti avanzare i giovani più “ortodossi”, spingendo gli innovatori a cercare altre vie. Ma il meccanismo evolutivo è lo stesso: tradizione, innovazione e selezione.
Nel caso dell’arte occidentale, l’evoluzione artistica si è orientata gradualmente a ricercare il naturalismo almeno in due casi: nella Grecia classica e a partire dal XIV secolo. Per varie circostanze, in questi due periodi le società “premiavano” gli artisti capaci di soddisfare quello che lo storico dell’arte Ernst Gombrich chiamava eye witness principle, il “principio del testimone oculare”. E cioè di creare opere che facessero sentire l’osservatore come “spettatore” di una scena realmente in corso, magari un dramma storico o epico, o una scena religiosa. Questo processo deve aver portato gli artisti a esplorare le proprietà intrinseche dei loro materiali e le possibilità di creare effetti naturalistici sempre più marcati. Fino a culminare nella scoperta di tecniche come il rilievo mediante contrasto cromatico e la prospettiva, che permettono di “bucare” le superfici, e presentare una scena come se lo spettatore la guardasse da una finestra.
Si potrebbero fare moltissimi altri esempi di evoluzione nell’arte. Caravaggio, l’artista italiano forse maggiormente conosciuto per il suo spirito ribelle e innovatore, ha “rotto” i rigidi schemi del manierismo dominante sul finire del XVI secolo, esplorando su larga scala gli effetti psicologici generati da tecniche pittoriche innovative (che si potrebbero oggi definire a tutti gli effetti ‘nuove tecnologie’) come l’accostamento tra aree scurissime, prive di informazione, e aree di pittura ad altissimo dettaglio, spesso inserite in contesti prospettici privi di coerenza geometrica. Gli effetti visivi introdotti da Caravaggio hanno resistito alle critiche anche violente del tempo e riscosso gradualmente un successo di pubblico che ha incentivato generazioni di artisti ed epigoni a studiarli e applicarli nuovamente in altri contesti.
Un altro caso celebre di ‘svolta evolutiva’ è quello degli impressionisti, cacciati dal Salon di Parigi del 1863 per le loro opere ‘tecnicamente sbagliate’, ma iniziatori di nuovi effetti pittorici destinati ad avere uno straordinario successo in tutto il mondo ed entrare nel vocabolario visivo di ciascuno di noi, tanto che oggi l'“effetto impressionista” fa parte delle opzioni di fotoritocco su qualsiasi applicazione fotografica.
Infine il Cubismo. Ciò che talvolta è stato descritto come il manifestarsi nelle arti visive di una nuova e paradossale modalità novecentesca di percezione dello spazio, stravolta e disorientata da innovazioni radicali filosofiche e scientifiche, dall’esistenzialismo alla teoria della relatività, potrebbe essere spiegato, senza ricorrere alla metafisica o a improbabili teorie storiciste, come una storia di successo ‘darwiniano’ in campo pittorico.
Nel 1905 Picasso realizzò il “Ritratto di Gertrude Stein”, un’opera per molti versi ispirata allo stile di Cézanne, ma con un dettaglio ‘dissonante’: l’occhio destro della protagonista, asimmetrico e sproporzionato. Picasso aveva scoperto un nuovo effetto pittorico: la possibilità di rappresentare immagini che generano interpretazioni contraddittorie, perché contengono elementi che innescano un riconoscimento – ad esempio, di un volto di fronte – e altri che lo smentiscono, e ne attivano un altro, come un volto di profilo. Negli anni successivi l’artista e molti altri – Braque, Picabia, l’italiano Severini - esplorarono con entusiasmo le possibili applicazioni della scoperta, riscontrando un enorme successo di pubblico.
L’occhio ‘sbagliato’ di Gertrude aveva inaugurato una storica svolta evolutiva nell’arte e nella cultura visiva.
INDICE Marzo/Aprile 2017
Editoriale
Monografica
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- Inseguire i populisti sul terreno dell’odio? Non funziona
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- Quanto dura una bufala? Un caso di scuola
- Bufale al potere - 1. Il senso di Trump per le bugie
- Bufale al potere - 2. La guerra ibrida del Cremlino
- L'odio di ieri e l'odio di oggi
Istituzioni ed economia
- Britannici e ucraini nell'Unione. Le 'due velocità' utili all'Europa
- Il 4 dicembre non è stata la nostra Brexit
Diritto e libertà
- L’Europa dei diritti contro la tirannia delle maggioranze
- I punti critici del Consultellum. Non spetta alla Corte fare buone leggi elettorali
- La morte buona, tra la politica e i tribunali