L’agente infiltrato contro la corruzione è un passo verso il totalitarismo
Diritto e libertà
La norma che istituisce la figura dell’agente sotto copertura nella lotta alla corruzione, introdotta con la legge “spazzacorrotti” approvata lo scorso 18 dicembre, desta perplessità per almeno tre ragioni: una normativa, una operativa e una generale, relativa alla concezione del diritto a cui risponde, e al rapporto tra lo Stato e i cittadini.
È stato precisato più volte dai promotori della legge, e dallo stesso ministro Alfonso Bonafede, che l’agente sotto copertura non è un agente provocatore. Il testo in effetti estende la non punibilità prevista per gli agenti infiltrati in organizzazioni criminali ad operazioni di indagine su reati contro la Pubblica amministrazione. Si tratta di una materia ovviamente molto delicata, perché espone l’investigatore al rischio di commettere crimini. Proprio per scongiurare questo rischio, fino ad oggi la disciplina delle operazioni sotto copertura (contenuta nella legge 146 del 2006, che recepisce in Italia il protocollo Onu sul contrasto al crimine organizzato) poneva limitazioni stringenti alla discrezionalità dell’agente infiltrato. Si precisava infatti che la sua azione deve essere contestualizzata a “specifiche operazioni di polizia”, e vincolata al “solo fine di acquisire elementi di prova”. Veniva poi elencata una precisa casistica di azioni illegali – ad esempio, occultare denaro, droga o armi – che l’agente potrebbe dover intraprendere, per le quali è prevista l’impunibilità.
La nuova normativa conserva queste prescrizioni, ma si complica per quanto riguarda la corruzione. Da un lato si precisa che la non punibilità si applica agli agenti “che corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri”. Quindi la legge sembra escludere la possibilità di provocazione del reato. Poi però estende l’impunità agli agenti che “promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o per remunerarlo o compiono attività prodromiche e strumentali”. Come è stato rilevato dalle opposizioni durante l’esame parlamentare, in commissione e in Aula, la norma, scritta così, lascia ampi margini di interpretazione che aprono alle operazioni di provocazione del reato. In particolare il passaggio che associa l’impunità alle “attività prodromiche e strumentali”, autorizza, di fatto, l’agente a compiere operazioni che precedono l’insorgere del fatto, e quindi, evidentemente, funzionali a creare le condizioni perché si verifichi.
Sul piano operativo, d’altronde, è difficile immaginare un’operazione efficace di polizia sotto copertura nel contrasto alla corruzione che non si configuri, in pratica, come un tentativo di provocazione. Per una ragione semplice: i reati di corruzione sono accordi informali tra privati, ad esempio un funzionario della Pubblica amministrazione e un imprenditore. In tali contesti è sostanzialmente impossibile “infiltrare” un terzo: l’agente sotto copertura risulterebbe immediatamente riconoscibile. In concreto, l’unico modo che un investigatore ha di partecipare a un fatto di corruzione è insomma fingersi una delle due parti per proporre l’accordo illecito, e quindi tentare di provocarlo.
Ma la perplessità più grave che desta la figura dell’agente sotto copertura esteso alla corruzione riguarda la concezione del diritto che implica. Per definizione, infatti, le operazioni sotto copertura riguardano organizzazioni illegali, criminali, terroristiche, o magari la giurisdizione di un Paese nemico. Organizzazioni cioè al di fuori dello Stato e delle sue leggi, di cui lo Stato conosce l’esistenza ma non le attività. Infiltrare un agente è, in questi casi, un metodo efficace per raccogliere informazioni e contrastarne i piani. La corruzione tuttavia è un fenomeno che non riguarda organizzazioni criminali, ma individui che appartengono alla società civile, ricoprono ruoli e svolgono attività del tutto legali.
Introdurre l’agente sotto copertura per questo tipo di reati, nei fatti, significa attribuire allo Stato il potere di spiare la società civile e i cittadini impegnati nei loro normali affari, alla ricerca di comportamenti illeciti. Si conferiscono allo Stato e alle forze dell'ordine, insomma, almeno in linea di principio, funzioni di vigilanza etica sulla società, non dissimili da quelle che aveva la Stasi nella DDR, o le altre polizie segrete nei vari regimi totalitari.
Sembrerà strano, ma basta una norma del genere, apparentemente specifica e tecnica, per sovvertire l’idea della rule of law - in cui lo Stato garantisce i diritti individuali dei cittadini, in particolare quando vengono accusati di un reato, e punisce solo coloro i cui crimini vengono accertati dopo un duro esame processuale ripartito su più livelli di giudizio - e rimpiazzarla con quella dello Stato etico che ha il diritto di spiare i comportamenti individuali, presumendo tutti potenzialmente colpevoli.