marchesedelgrillo

Nel paese del marchese del Grillo, il rapporto tra privati e i decisori pubblici ricorda molto quello dell'ebreo Aronne Piperno con il nobile burlone romano. Aronne era un bravo ebanista, che alla cortese richiesta di pagamento per i lavori eseguiti, si sentì rispondere dal marchese: "nun te pago". Nulla poté l'artigiano contro l'arbitrio brutale del principe, salvo provare a ingraziarselo proponendo sconti, mostrandosi umile per non irritarlo. Monicelli comprendeva bene gli italiani, e il suo cinema offre spunti per interpretare gli ennesimi scandali di questi giorni, che hanno coinvolto l'ex ministra Guidi, travolta fin nella sua vita intima in una penosa gogna mediatica.

Fuori dalla fiction cinematografica, nell'Italia attuale, il marchese del Grillo non ha il volto gioviale di Alberto Sordi. Non ha affatto, anzi, una fisionomia definita: è piuttosto un caos arbitrario generato dall'assenza di un decisore pubblico forte, legittimato ad agire in modo trasparente, senza incorrere in veti di ogni tipo. Al suo posto, coabitano e prosperano nelle istituzioni della Repubblica una selva di poteri corporativi e autoreferenziali, politici amministrativi, giudiziari, territoriali - e su tutti, il 'legislatore' , ovvero la classe politica - ciascuno troppo debole per prevalere, ma tutti abbastanza forti da vanificare moltissime iniziative.

Ciò che rende possibile la discrezionalità dei vari feudi in cui è stratificato il sistema italiano, è la bulimia normativa e regolatoria, spesso ambigua e paradossale, che affligge il nostro ordinamento, e che apre possibilità infinite di contenziosi, limitate solo dalla fantasia creativa di giudici ed avvocati. Vertenze, occorre ricordarlo, capaci di distruggere qualsiasi iniziativa di investimento e di trasformare, col tempo, contratti redditizi in incubi di bilancio.

E' così di fatto impossibile, per un'impresa, operare in settori strategici come le infrastrutture, i servizi ambientali, l'energia, gli appalti, senza incorrere in qualche paradosso da 'comma 22', ricorsi al Tar, inchieste, o in qualche altro grottesco pasticcio normativo. Oggi mezza Italia è stordita dalla sbronza di indignazione morale per gli scandali della Basilicata e della Puglia (di cui si capiranno chissà quando gli effettivi doli e responsabilità), ma nessuno provò particolare disgusto qualche anno fa, quando British Gas abbandonò il progetto del rigassificatore di Brindisi, dopo 11 anni di 'bracci di ferro' legali (e 250 milioni di euro spesi) per ottenere le autorizzazioni dai marchesi del grillo italiani.

Gli intrecci tra affari e governo emersi nei giorni scorsi intorno al caso dell'emendamento 'Tempa rossa', hanno sollevato un interessante dibattito sul ruolo delle lobby e sulla loro regolamentazione. Normative che legittimino e tutelino i lobbisti, la cui attività, come evidenziato dal prof. Pierluigi Petrillo, è una componente strutturale di un processo democratico di formazione delle scelte pubbliche (nel totalitarismo le lobby non esistono, salvo quelle interne all'apparato), sono senz'altro auspicabili. Nel contesto di discrezionalità istituzionale italiana sopra abbozzato, rischiano tuttavia di risultare inefficaci, o di produrre solo lavoro aggiuntivo per avvocati e giudici.

Si rischia peraltro di mancare il punto. Gli affaristi italiani che prosperano trafficando con la politica non sono lobbisti (i quali pure in Italia senz'altro ci sono, e giustamente lamentano l'assenza di regolamentazione e riconoscimento), vale a dire portatori di interesse "all'americana" che perorano apertamente la loro causa davanti a un decisore pubblico legittimato ad agire in modo trasparente. Il nocciolo del problema è proprio questo: in paesi come gli Stati Uniti il governo è autorizzato da un'architettura istituzionale e costituzionale robusta - gli ormai mitologici check and balances - e ovviamente dal mandato elettorale dei cittadini, a favorire alla luce del sole alcuni soggetti e scontentarne altri, senza incorrere in veti.

In Italia, dove le istituzioni sono affette da una patologica fragilità e scarsa credibilità, questo non è possibile: il decisore che non voglia vedere vanificata ogni sua iniziativa dalla discrezionalità dei feudi e poteri corporativi, finisce per agire in modo opaco, cercando sotterfugi e compromessi basati su relazioni informali. Compaiono così i professionisti degli affari parapubblici, del crony capitalism e nei casi peggiori, della corruzione: i tanti Aronne d'Italia hanno ormai da tempo dimenticato i loro mestieri artigiani e si sono fatti furbi, cercando fortuna affiliandosi ai vari marchesi del Grillo.