La tecnologia medica rende sempre meno naturali i tempi e i modi del trapasso. Lo spazio di confine e il tempo dilatato tra la vita e la morte è quello in cui si ingaggia la battaglia tra l’individuo e la legge. Ma il vuoto legislativo non comporta un vuoto di diritti. Le fondamentali libertà costituzionali non possono essere conculcate in nome di una decisione o rimozione collettiva. Per questo è inevitabile che sul fine vita – come su altri temi eticamente sensibili - i ritardi del Parlamento trovino rimedio nelle decisioni dei giudici.

Della Vedova eutan

La discussione bioetica e politica intorno al fine vita risente e sempre più risentirà dell’evoluzione tecnologica. Specularmente, peraltro, a quello che accade nella fase iniziale, embrionale, della vita umana.

Le sofisticate tecniche di sostegno vitale, a partire da quelle per la ventilazione, l’idratazione e la nutrizione artificiale, rendono sempre meno "naturali" i tempi e le modalità del trapasso. Lo spazio di confine tra la vita e la morte, una volta breve ed evanescente, è oggi in un numero crescente di casi ampio oltre l’immaginabile e costellato di scelte terapeutiche sempre più efficienti e invasive.

È in questo tempo dilatato dalla potenza dell'uomo che si ingaggia la battaglia tra l’individuo e la legge. Infatti non c’è, in genere, niente di meramente “naturale” nelle condizioni di fine vita, per cui si disputa su chi abbia il diritto di decidere la prosecuzione o la cessazione di trattamenti capaci di prorogare la vita biologica ben oltre i limiti della vita personale. E altrettanto poco “naturale” è la condizione di malati terminali o afflitti da patologie gravemente invalidanti e irreversibili, che ritengono il proprio stato insopportabile e degradante e chiedono sia consentito loro di risparmiare un supplemento di dolore e di umiliazione.

Nella vicenda di dj Fabo la cosa più “naturale” – di fronte al venir meno di qualunque speranza di miglioramento, se non di guarigione – è sembrata proprio l’umanissima pretesa di decidere della propria sorte (non la pretesa di morire, quella di decidere) e di ribadire la natura intimamente personale e non “collettiva” della vita umana, anche di fronte alla malattia.

C’è chi sostiene che legiferare in materia di fine vita implica che sia il legislatore ad arrogarsi il diritto di stabilire quale vita sia degna di essere vissuta e quale possa essere sacrificata. In realtà, è esattamente vero il contrario. Alla legge, su questa materia, è richiesto di far spazio nel diritto positivo a un principio che ha già trovato spazio nella logica morale comune, dopo il tramonto del paternalismo medico: che nella malattia e nella sofferenza il corpo umano non possa essere espropriato agli uomini che lo abitano, che lo animano e che lo “sentono”.

Un primo segmento di discussione legislativa sembra destinato ad avviarsi nei prossimi giorni e non possiamo prevederne gli esiti. Il disegno di legge sul testamento biologico, mentre scrivo, è stato finalmente iscritto all’ordine del giorno della Camera dei Deputati. Non significa, come sappiamo, che avrà un cammino agevole, anzi, è piuttosto presumibile il contrario.

Le disposizioni anticipate di trattamento hanno in verità un obiettivo semplice: garantire che la libertà terapeutica sia riconosciuta anche per i pazienti in stato di incoscienza, che abbiano scelto di lasciare indicazioni "ora per allora" su quali terapie praticare e quali no e di affidare le proprie volontà a un fiduciario. Estendere il principio del consenso informato al momento in cui non si è più in grado di rispondere direttamente è questione tutt'altro che banale e per questo richiede uno sforzo di approfondimento corale tra Parlamento ed esperti.

Nella legislatura precedente il tentativo, per fortuna fallito, fu quello di fare una legge non "per", ma "contro" il testamento biologico. Il suo presupposto, infatti, era che la decisione finale dovesse comunque spettare al medico e che non fossero considerati terapie – e quindi non fossero rifiutabili – i trattamenti di sostegno vitale come l’idratazione e l’alimentazione forzata. Era una legge concepita, come si diceva sinistramente, per “salvare Eluana”.

La legge in discussione ora alla Camera, per come è stata licenziata dalle Commissioni, rappresenta, salvo peggioramenti nell'iter di approvazione, un deciso passo avanti e c'è da augurarsi che sia votata in questo finale di legislatura. D’altra parte, il tentativo di separare con un muro insormontabile questa normativa da quella più propriamente “eutanasica” e di continuare a presidiare il confine tra la cosiddetta eutanasia passiva e quella attiva – come ribadiscono i leader di quasi tutti i gruppi parlamentari – è sempre meno sostenibile anche dal punto di vista bioetico, una volta che siano chiaramente stabiliti il primato e l’indisponibilità della volontà del paziente e chiaramente distinta l’assistenza medica alla “morte volontaria” – che è stata oggettivamente tale sia, ad esempio, nel caso Welby (eutanasia passiva), che nel caso di dj Fabo (eutanasia attiva) – dalla fattispecie generale dell’aiuto al suicidio.

I tanti e queruli oppositori di una legge sul fine vita – meno e meno queruli, per la verità, da quando oltre Tevere c’è il Papa giunto dalla fine del mondo – discutono di disponibilità della vita e di alleanza terapeutica, ma poco di responsabilità e libertà degli individui. Anche per questo faticano a comprendere che non vi è alcun abuso se, in assenza di una legge, sono alla fine i tribunali a intervenire stabilendo ciò che è lecito, oppure no. Accadrà forse anche per il caso di Dj Fabo, grazie all'autodenuncia di Marco Cappato, "reo" di averlo accompagnato a Zurigo per un suicidio assistito che ponesse fine alle sue sofferenze con meno strazio di quanto sarebbe potuto accadere con la mera sospensione delle terapie di ventilazione e nutrizione artificiale.

Mi sono più volte sentito accusare: proprio tu, garantista, accetti che siano i giudici a decidere e non il Parlamento! Sì, lo accetto; anzi, in alcune circostanze lo esigo. Lo stato di diritto del costituzionalismo liberale si basa sul presupposto che i diritti delle persone possano essere esigibili anche in assenza di una legge che li riconosca o ne codifichi l'esercizio. Se si crea un vuoto legislativo, questo non comporta automaticamente un vuoto dei diritti. Il che rappresenta l'altra faccia dell’obbligo, per il legislatore, di muoversi entro i vincoli costituzionali, a maggiore ragione quando tratta dei diritti di libertà.

Il caso di Eluana fu emblematico: grazie alla battaglia socratica e nonviolenta del padre Beppino, che rifiutò il "si fa ma non si dice", alla fine un tribunale stabilì che a partire dall'articolo 32 della Costituzione, una volta appurato che quella fosse effettivamente la volontà della ragazza, il diritto a non essere sottoposti a trattamenti sanitari indesiderati dovesse prevalere, anche in assenza di una specifica normativa che equiparasse le direttive anticipate dei pazienti, comunque formulate, all’espressione di un dissenso, come usa dire, “attuale”.

In fondo, analogo fu anche il caso giudiziario in cui venne coinvolto l’anestesista Mario Riccio, che sedò Piergiorgio Welby interrompendo il trattamento di respirazione artificiale e accompagnandolo così alla morte, come gli aveva richiesto il paziente. Toccò a un tribunale stabilire, nel silenzio della legge e nell’interpretazione controversa delle norme deontologiche, che il diritto al rifiuto delle cure è assoluto, anche quando è motivato dalla volontà eutanasica del malato.

Detto ciò, non mi bastano le decisioni delle corti. Sul fine vita – sulle direttive anticipate di trattamento, ma non solo – si devono scrivere buone leggi che partano dalle libertà e responsabilità che sempre più saremo chiamati ad esercitare con le nostre decisioni, affinché i nostri corpi, più che le nostre vite, non restino ostaggi, contro la nostra volontà, nel limbo della vita artificiale cui proprio la benedetta medicina, che ci fa vivere più a lungo in buona salute, sempre più spesso ci conduce.

@bendellavedova